9 gennaio 1950 – 9 gennaio 2011

Libero pedala veloce verso casa, quasi per lasciarsi alle spalle l’assemblea non proprio entusiasmante, che si è appena conclusa. Il quartiere a nord della città, dopo la ferrovia, è sempre stato abitato dai proletari che lavoravano nelle grandi fabbriche.

Il nove gennaio del 1950, pochi anni dopo la Liberazione, sei operai che partecipavano allo sciopero per ottenere la riapertura delle Fonderie furono trucidati dalla Celere. La micidiale polizia del ministro fascista Scelba stava insanguinando l’Italia per ricordare che Liberazione o non Liberazione comandavano ancora loro.

Tutte le volte che Libero passa di lì, dopo il cavalcavia, vede il cippo con qualche corona rinsecchita e si chiede se quelle persone siano morte per qualche cosa. E se lo chiede anche oggi.

Suo nonno Adelmo, abbandonato il lavoro di contadino in montagna che non gli dava più da campare, era finito a lavorare alle Fonderie. Fu sottoposto al tiro al piattello della polizia e venne ferito insieme ad oltre duecento operai. Come molti altri, non andò a farsi curare in ospedale per paura di essere arrestato.

‘Un po’ come vorrebbero fare adesso con gli extra comunitari’, riflette amaro Libero, riferendosi alla norma del Governo che vorrebbe obbligare i medici a denunciare i clandestini che si presentano al pronto soccorso.



Il padre di Libero aveva dieci anni quel nove gennaio, quando suo padre Adelmo arrivò in casa sanguinante ed incosciente, portato a braccia da tre compagni. Se chiedeva cosa era successo, gli rispondevano che si era fatto male a lavorare e di andare fuori a giocare. Ma perché non lo avevano portato all’ospedale? Il nonno di Libero ogni tanto, anche poco prima di morire, tirava fuori le fotografie dei suoi amici uccisi e non riusciva a trattenere le lacrime. A Libero faceva effetto vedere un vecchio piangere. Tirando su con il naso, diceva: – Che discorso, Togliatti, ai funerali! Ha detto che, di fronte alla maestà infinita della morte, di fronte allo schianto dei familiari e al dolore di tutto il popolo, di fronte a quegli occhi pieni di lagrime, lui sentiva soprattutto la vanità dì tutte le parole umane…

– Ma nonno, si dice lacrime! – lo correggeva Libero.

– At deggh c’la propria détt lagrime, an sàun menga rimbambìi.

Libero ascoltava rapito e si immaginava un uomo grande grande che parlava da un grande palco a milioni di persone, con tante bandiere rosse che sventolavano.

– Ma voi, voi siete stati uccisi…maledetti sono gli uomini che, fieri di avere nella mani il potere, si assidono al vertice di questa società maledetta, e con la violenza delle armi, con l’assassinio e l’eccidio respingono la richiesta più umile che l’uomo possa avanzare; la richiesta di lavorare.

Chissà se Togliatti immaginava che, mezzo secolo dopo, il lavoro sarebbe diventato di nuovo un’emergenza? Mah!

– E voi, compagni e fratelli caduti: Appiani Angelo di anni 30; Rovatti Roberto di anni 36; Malagoli Arturo di anni 21; Garagnani Ennio di anni 21; Bersani Renzo di anni 21; Chiappelli Arturo di anni 43: riposate! Non oso, non son capace di dirvi: riposate in pace! Troppo breve, troppo tempestosa, tragicamente troncata è stata la vostra esistenza. Troppo grave è l’appello che esce dalle vostre bare.

A Libero rimase impresso quel discorso che gli recitava suo nonno perché sapeva coniugare il linguaggio politico con una profonda umanità, pur nella retorica dell’occasione e di quei tempi andati.

E adesso prova un po’ di nostalgia, soprattutto se pensa alle tirate che i politici fanno in televisione, seduti su comode poltrone bianche. Sembra che discutano, invece sono posseduti dal vizio dell’eristica. Non importa se ciò che dicono sia vero o falso, documentato o no, l’importante è che le loro obiezioni mettano in difficoltà l’avversario.

– Ma voi, madri, sorelle, spose, non piangete! Non piangiamo, lavoratori di Modena. Sia l’acre sapore delle lagrime, per non piangere, inghiottito, stimolo aspro al lavoro nuovo, alla lotta.

E dai con quelle lagrime!

– Dobbiamo far uscire l’Italia da questa situazione dolorosa. Vogliamo che l’Italia diventi un paese civile, dove sia sacra la vita dei lavoratori, dove sacro sia il diritto dei cittadini al lavoro, alla libertà, alla pace! Andiamo avanti, grazie allo sforzo unito di tutti i lavoratori, di tutto il popolo italiano; nostra deve essere, nostra sarà la vittoria. Allora anche voi, compagni e fratelli caduti, riposerete in pace!

Sacra la vita dei lavoratori? Ma se ogni anno ne muoiono più di mille!

E le chiamano morti bianche? Ma andassero a vedere i corpi straziati sotto una pressa, o caduti da un’impalcatura, o soffocati in un silos! Sacro il diritto dei cittadini al lavoro? Ma se la Tecno Mecc rischia di chiudere per sempre, non solo per la crisi, ma anche perchè un filibustiere come il cavalier Guidetti, senza scrupoli, l’ha spremuta come un limone?

Da Romanzo Reale,lauro venturi,este edizioni 2010

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