È rientrata per sempre
la piccola barchetta bianca
allascando fiocco e randa
che nessun Grecale
rigonfierà.
Tristi i pesciolini
aspetteranno il pane generoso
che tu regalavi
per la gioia non solo
dei bambini.
Più felici i polpi
che non dovranno scappare
nelle loro tane
perché la tua fiocina ora
è scarica.
Lasciamo al tintinnare
delle sartie
la nenia funebre per te,
Signora del mare.
Buon vento, Gisela.
Mi piace molto scrivere, mi è naturale, nella calma e nella pace, prendere una penna ed un foglio e buttare giù delle parole.
Poi non le curo più di tanto perché mi basta il momento in cui le ho scritte.
Questa sezione contiene scritti che esprimono temi personali: alcune di queste sono diventate, diciamo così, poesie che qualche era fa hanno avuto riconoscimenti in qualche concorso. Poi ho lasciato perdere perchè i testi che seguono non possono in alcun modo essere definiti poesie. Dopo una lunga riflessione ho deciso di lasciare anche i testi riportati nei miei diari da adolescente, pur riconoscendo che sono mediamente raccappriccianti: però anche quelle sono parole che ho scritto e ora le guardo con indulgenza.
Infine, tanti anni fa ho scritto piccoli ‘scherzi’ sulla vita aziendale, filone che non ho più sviluppato: Parole aziendali.
Di là, in cucina
sento mio figlio e la sua famiglia
nelle chiacchiere
della domenica.
Qui il fumo deciso
del Toscano
sale voluttuoso
e accompagna l’estate
sui sentieri autunnali.
E così sia.
La vita scorre tranquilla
e morbida
come la luce di fine
settembre.
Il caldo cattivo è
alle spalle
e l’inverno di fronte,
non vicino però.
Ci penseremo poi,
gustando intanto piccole
“frecce di felicità*”.
*) Lella Ravasi - Poesia Festival 2024
Questa sera le cicale
si sono zittite
prima.
Il caldo è meno rovente
e anche la luce
un pó più corta.
Tutto ci ricorda
la lenta e progressiva
discesa
verso l’autunno.
Basta ascoltare.
E si chiacchiera
così le parole scivolano
tra un refolo di Toscano
e un sorso di grappa buona.
L’inutilità diventa piacevole sostanza.
Rocce immobili
baciate dal sole
guardano scorrere
le nostre vite
grate
di cotanta bellezza
Quand’ero bambino io quanti vecchi c’erano!
Ma vecchi per davvero, con la faccia segnata
da un labirinto di rughe messe lì da tante fatiche
spesso sotto il sole a vangare zappare
e coltivare la terra.
Mi piaceva osservare le loro facce
e quegli occhi quasi sempre vivaci
ancora curiosi.
D’altronde, il mondo andava forte
e ogni giorno ce n’era una nuova.
I vecchi raccontavano sempre lo stupore
della prima volta che si accese la luce
e si spense la lampada a petrolio.
O quando, nella cabina telefonica
del bar del paese
avevano sentito la voce del loro parente
emigrato oltre oceano:
“Ma ét dabàun tè?*” chiedevano increduli.
Mi sovviene che oggi nessuno
vuole più sembrare vecchio.
E allora giù di palestre, diete e privazioni
in un incongruo affresco di plastica.
Sui visi dei vecchi di adesso
mi pare di leggere insoddisfazione e tensione.
Non è una malevola proiezione
ma una sola constatazione.
Ai miei tempi i vecchi non si vergognavano
di essere vecchi e si riposavano di più
rinunciando a contrastare a tutti i costi
l’incedere del tempo.
Se i vecchi smettono di fare i vecchi
il tempo poi si ferma e non si evolve.
Ai vecchi si addice la mollezza e un po’ di flaccidità
e allora mi tengo tutto
un po’ di pancia, doppio mento e pappagorgia.
Ma anche la serenità di chi pensa e sente
di aver fatto tutto il possibile.
E neanche male.
*) Ma sei davvero tu?
E mentre corro
su un treno che è fermo
m’illudo così ancora
di stare in movimento.
Né illusione
e nemmeno testardaggine,
son le gambe che non sanno
stare ferme.
L’orizzonte
come ogni meta
è una finzione.
Qui sulla spiaggia
restano corpi al sole
quasi sempre senza grazia
tranne qualche sprazzo
di gioventù.
La Corsica laggiù a ovest
è baciata da un sole rosso
che promette un’alba buona.
Poco più a nord, ma poco,
la Capraia
spunta dietro l’Enfola
spinta dal vento e dalla nostalgia.
È una buona sera
ma anche qui gli anni passano
pur se le onde gentili
continuano a stuzzicare la costa
con un leggero sciabordio.
Non il calciatore
e nemmeno l’aviere,
da bambino
volevo fare il pompiere
per arginare
quei fuochi cattivi
che non diventavano mai
cenere
e soffocavano la casa
di braci
Non mi basta una sufficienza
perché le mie ruote
sanno andare più lontano.
E comunque
mai nessuna meta sarà bella
come la strada fatta insieme.
(con Piero e Beppe)
Oh caro babbo
hai visto dove sono?
Qui ora c’è un canile,
bestie prima e bestie ora.
La chiamavi la tua tragedia
quei sette anni di guerra
e di concentramento,
di fame e di botte.
Per tornare con trenta chili
di pastrano, scarponi,
elmetto. E pelle e ossa.
Sono qua per riattaccare
il grasso che toglievo
al prosciutto,
son qua a finire
ciò che lasciai nel piatto
con l’innocente sfacciataggine
di chi aveva ancora
tanto di quel futuro.
Sai, mi piace pensare
che tu possa vedere
questo tardivo risarcimento.
Comunque, puoi riposare adesso,
che le pecore son tutte nell’ovile.
Abbiamo negli occhi
mete lontane
e nel cuore robuste radici.
Viaggiamo con più o meno tempo
nella vita di tre generazioni.
Ci portiamo addosso
un po’ dei nostri avi
e lasciamo solchi
per chi dopo di noi
verrà.
Non c’è villa e non c’è castello
non c’è posto così bello
come la mia casina gialla
quando la primavera
brilla
C’è la brina come
quella volta
d’altronde sono i giorni
della merla
Qui dentro fa
meno freddo
da quando ti ho
lasciata andare
Il mare di nebbia
riempie la pianura.
L’uomo e il cane
guardano sorpresi
i fiordi d’appennino.
L’afrore del tartufo
completa la magia.
Mi capita (soprattutto se il tempo
è brutto)
di arrivare in via Rocca
al numero 3.
Lì sono nato in una casa
che non c’è più
(o almeno quella di allora).
Il fiume che scorre vicino
proprio lì curva deciso
come a dire che la vita
sarà storta e in salita.
I simboli qualcosa vorranno
pur dire
e allora quasi di fronte
resistono i ruderi
di una vecchia cartiera.
Carta per pagine di libri
e quaderni
a trattenere parole lette
e scritte
per far sembrare le cose un po’
più dritte.
22 dicembre 2022
Passeggio
un po’ rimbambito
appoggiato a
un ridicolo ombrellino
che la gentile receptionist ha
voluto prestarmi.
Questa spiaggia
mi ha visto giovane
e cavalcare le onde.
A ogni caduta
mi rialzavo
senza risentimento.
Se non sansone nemmeno filisteo.
Oggi tocco
l’acqua salata con un piede
e deve bastarmi.
Ticchetta qualche prevedibile goccia
di pioggia.
Rientro prima che faccia
sul serio.
Grato.
E l’odore del tuo piccolo seno
mi è rimasto tra le mani
e il sogno è svanito
dissolvendosi in nostalgia.
Non bastano dieci anni
per dimenticarti
anzi sei più che mai
ora e qui che sorridi.
E quel odore non mi fa dormire
come quasi trent’anni fa
quando il rumore del nostro
primo bacio ci tenne svegli.
Ho respirato
l’energia ingiuriosa
dei giovani,
implacabile
come il sole all’alba
di una bella giornata.
Anche se mi aspetta
il tramonto
gioisco.
Ho fatto il vaccino all’Oratorio
persone gentili e poca fila
non c’è inferno nè purgatorio
facile come bere una tequila.
Forse il braccio diverrà dolente
un pó di febbre o anche niente
meglio la scienza seppur incerta
che l’ignoranza sempre all’erta.
Come panni ai fili stesi
le nuvole di pioggia gonfie
come pensieri sospesi
al ciel si mostran tronfie.
Rimaniamo guardinghi e in attesa:
pioverà o la tempesta si è arresa?
Poiché niente da noi dipenderà
teniam sempre vicino un ombrello
che al momento giusto si aprirà
se il tempo non diventasse bello.
Pioggia pioggia pioggerellina
fine fine come la farina
ti infili subdola sotto la pelle
e nascondi pure le stelle.
E vero che nella pianura padana
non può mica esserci un’aria africana
ma per dio, una via di mezzo
è così proprio un grande vezzo?
Va bè, sfogati pure per bene
siamo abituati a queste altalene
tra giornate serene piene di sole
e le tue gocce che fan le capriole.
Sulla nebbia c’è ormai poco da dire
come per le stagioni che non son più
o la pandemia che sembra non finire
in queste piazze cattive che tiran giù.
E la nebbia ritorna sempre uguale e fedele
e ricorda che anche novembre deve passare
che per la luce servono ancora tante candele
tanti giorni per toccare di nuovo il mare.
Poi la nebbia scompare improvvisa e silente
e le cose nascoste riprendono di nuovo forma
una sensazione tranquilla accarezza la mente
perché in fondo nulla manca e tutto torna.
Che dolcezza queste foglie
morbide
e gialle come il sole che oggi
manca.
Preferisco stare in piedi
piuttosto che spostarle.
Oppure cercare un’altra panchina
che sicuramente ci sarà.
Deve esserci.
C’è sempre un altrove in cui riposarci.
è arroccata come un caprone
che non vuol diventar abbacchio:
bè, è proprio una bella abitazione.
Senza lavoro il pane manca ma lavorare stanca
Di lavoro è oggi l’ultimo giorno
quanti anni ormai passati lá dentro
un igloo in inverno e d’estate un forno
quante ore prima dell’agognato ritorno.
Lavorare si sa è comunque importante
per il vil denaro e per realizzarsi
senza il lavoro l’esistenza è frustrante
ma quand’è troppo occorre riposarsi.
Spesso il lavoro è avaro di soddisfazioni
perché si vedono troppe cose sbagliate
per disorganizzazione e capi coglioni
che san far solo danni e tante cazzate.
Ma adesso cara sorella
goditi i giorni senza timbrare
perché la vita è più bella
usando il tempo come ti pare.
Eran già grandi questi pioppi
quando io bambino
li guardavo dal basso in alto
con ammirazione.
Li guardo ora
più che adulto e mai grande
e penso che
mi sopravviveranno.
L’altezza naturale non fa paura
perché è vera.
La misera presunta altezza
mi intristisce
nella sua ridicola pochezza.
Ci salgo non spesso ma ogni tanto
sulle ubertose colline di Villabianca.
Mi fermo davanti alla vecchia chiesetta
e seppur mi definisca agnostico
qualche volta ci sosto pochi minuti.
Poi senza fretta ripartono le gambe
e mi prende una vaga malinconia
quando passo davanti all’osteria chiusa,
dove un tempo troppo lontano venivamo
per mangiare bene e spendere poco:
Erio ci lasciava suonare e cantare.
Poco più avanti adesso c’è un nuovo locale
elegante, con persone gentili e raffinato cibo
che mi godo con i miei amici non più giovani.
Poi continuo con passi uguali la strada
fino ad arrivare a questa quercia antica.
Salto sull’argine e mi appoggio per ristorarmi,
con gli argillosi calanchi alle mie spalle
e i rossi filari di lambrusco di fronte,
intervallati da ulivi verdi, in ogni stagione.
In una preziosa pace penso un po’
alle cose belle e brutte della mia vita.
Mi interrompe a volte il chiocciolio di una gallina
o l’allegro cinguettio di un uccellino libero.
Può capitare che sfrecci veloce una bicicletta
o mi distragga il monotono rintocco della campana.
Quando penso che l’ora sia giunta…ritorno.
Ludovico caro hai già cinque anni
come le dita di un tuo piedino.
Una vita per fortuna lontana dagli affanni
e una pace che sento quando mi avvicino.
Cinque, come le dita della tua manina
che quando all’asilo stringe la mia
mi sento come un’auto piena di benzina
che può andare dappertutto: e così sia.
I nostri pomeriggio di giochi a fare i matti,
a costruire cancelli per i cavalli,
o leggere libri sornioni come i gatti
comunque sempre senza intervalli.
Ludovico caro, quanta gioia hai portato
alla mamma, al babbo, ai nonni e a tua sorella,
continua a camminare senza mai essere affaticato
perché te lo dico per davvero: la vita è bella!
Un tronco di legno
come un insetto sfinito
arrivato lì non si sa come
si lascia schiaffeggiare
da un Libeccio
che potrebbe girare
in Maestrale.
Ieri lo Scirocco
lo rinfrescava con folate
tese e alternate.
Non cambia solo il mare.
Lo scirocco è teso e deciso
oggi.
Soffia nei fori degli alberi
delle barche a vela
rinchiuse nel porto
di Marciana.
Come se Jan Anderson
suonasse istrionico
il suo flauto
esce un suono
tra l’atmosfera horror
e la colonna sonora
di un film western.
Ascolto stupito e sorpreso
che senza alcuno spartito
questa musica si propaghi.
Due gusci tirati in secca
aspettano annoiati
la prossima estate.
L’isola d’Elba, ma quel pezzo
che quando scendi dal traghetto
ti allontana dal cartello
“tutte le direzioni”.
L’ho scoperto 34 anni fa
e mai trascurato nemmeno un anno,
mi appartiene
e come luogo mi definisce:
o meglio, definisce un pezzo di me.
Mi regala giorni di sole non sgarbato
e di acqua trasparente e morbida.
Posso leggere, scrivere, dormire e pensare.
Oltre a bere e a mangiare
e al concerto per Milvio,
sempre sold out perché è l’unico spettatore
del mio repertorio gucciniano.
Sono grato di questi giorni.
Si chiudono
i cancelli dell’estate.
Ce lo hanno detto
i ciclamini
e le nuvole
sempre più scure.
Ce lo sentiamo anche
addosso.
Con morbidi colori
e temperature ancora
gradevoli
si apriranno
piano i cancelli dell’autunno.
Poi pioggia e nebbia
e freddo
ci faranno sperare
di non stare troppo
come d’autunno
sugli alberi le foglie.
E nonostante tutto
tornerà ancora la primavera.
Soffia gentile
e senza pretese
la voglia di esserci ancora.
I pensieri
non detti né condivisi
sono sacri e indiscutibili.
E non si possono rubare.
Diverse, e di molto,
le azioni.
Caro Babbo, sono sdraiato su un grande sasso proprio sotto le cascate del Dardagna. Ci siamo venuti solo una volta, dormendo una sera nella Cinquecento e una alla Pensione Caterina di Pogiolforato: una stella, probabilmente eccessiva.
I soldi erano quelli che erano, pochi: però io lo racconto sempre come se ci fossimo venuti cento volte.
Ma come ti piaceva saltare sui sassi, oh, quello si che l’abbiamo fatto tante volte, in quei giorni.
E in quei salti, adesso lo so, si involavano le tragedie del campo di concentramento e di una vita opposta.
In quei salti volavi leggero come il bambino che non hai mai potuto essere.
Qui c’è un pezzo delle tue radici e io ci vengo spesso e volentieri per tenerle vive, come la brace del camino che ostinata non voleva spegnersi.
Mi piacerebbe essere qui insieme, ma te ne sei andato troppo presto perché tra noi potesse tessersi quella trama e quell’ordito che solo la maturità permette.
Vorrei discendere lungo il Dardagna, fino al Leo e poi in Panaro, il Po e il mare. E ritrovarci nella pancia della Balena: ma queste sono favole. E poi cosa vuoi che siano alcune lacrime, in tutta quest’acqua che scorre?
Bé, comunque ciao.
Il tuo figlio.
Anche gli alberi
si stancano
e inspiegabilmente
ma solo per noi
crollano in un colpo solo.
Ma quel colpo
è stato preparato
da millanta e forse più
microfratture,
quelle che non senti
ma che lasciano il segno.
Crack.
Perché mi da pace
questa girandola
spinta dal vento?
Perchè quel movimento
senza fantasia
mi ipnotizza?
Quanto l’ho cercata,
osservata e immaginata
qui a casa mia,
questa girandola.
Perché?
Perché in quel movimento
tutto é previsto
e nulla può accadere
di diverso
dal già conosciuto?
Sí, l’acqua
si sposa con le nuvole
e le montagne
incorniciano
un pezzo d’universo.
Siamo piccole
ma non misere particelle
di questo immenso.
Si addensano le nuvole
a chiudere la Valle.
Le mosche noiose
sanno che tra poco
pioverà
e fastidiose ronzano
senza educazione.
Scorre comunque indifferente
l’Aurino.
Il tempo della pace
non è più un’opzione
e forse nemmeno
un diritto.
È la necessità
se non la condizione
per vivere.
È un braccio per attraversare
l’incalzante realtà senza scelta
della vecchiezza.
Il tempo della pace
è un ritiro parziale ma deciso
anche dai più cari affetti,
senza strappo alcuno.
Restituisce quella libertà negata
dalla fine della adolescenza
all’adultitá.
È attraversare
le tappe rimaste
che sanno ormai di ultimo.
Il tempo della pace
non si costruisce da soli
e benedetto sia
chi ci accompagnerà.
Il mio amico
cammina nell’anno nuovo
a picco su un mare
azzurro e piatto.
I suoi piedi poggiano
su robuste e antiche pietre
che proteggono
la piccola chiesa di Schiara
in una invisibile
bolla di pace.
E mi pare che stringa
gli occhi
per sentire meglio
tutta questa emozione.
Ho tre amici
chi più chi meno felici
o feriti
tra madri, figli nipoti
e chissà.
Scendiamo tra le rapide
impetuose della vita
tutti insieme a pagaiare
per giungere a valle
il più tardi possibile
senza farci troppo male.
Ci giochiamo la mano
che la sorte ci ha dato
non troppo incattiviti
siamo amici
e ci regaliamo il tempo
per un bicchiere in compagnia.
E così sia.
Bàun an per ste’tr an
e par tott i an.
Speràm cag sia arpàuns
e brisa afàn.
Bàun an.
È finito Natale anche quest’anno
per fortuna senza troppo danno,
nonostante quel mangiare e fare festa
che ti lascia un sottile mal di testa.
Si scartano i cosiddetti “pensierini”
oggetti spesso inutili e un po’ cretini
per dirci quanto bene ci vogliamo
senza accorgerci che ci intristiamo
per troppe cose e poco affetto:
ma questo rimane nel non detto.
Quando l’ora d’andare finalmente scocca
con un sottile amaro in bocca
si scatta qualche obbligata fotografia
che immortala la piccola malinconia
per aver ancora una volta recitato
la saga di un Natale già dimenticato.
Vin chè c’an muràm
menga ed fàm
parché un pez ed pan
an pol ménga manchér.
E se a samm in trôp a se stricàmm,
préma che la miséria
l’ad vàinta ‘na cósa séria.
Nuetèr as duvamm aiutér
per tirér avanti e campèr.
E po’ at voi bàin
e tè tal sè.
Ma va lá, vin chè
che dmann le un etèr dè.
An vadd l’óra, ogni dé,
ca vègna mez dè.
Ménga tant par magnér
càs magna anch tròp:
l’e par tirér fiê.
An gò piò vint an
a sàun un ragàz
ed ‘na vòlta.
Ma la va bèin acsè.
A stufamm la cantèina
stasìra,
me e i me amìgh
con dal pan e dal salàm
e tanti ed cal ciàcher
da rimpîr i bicér.
E lasa cla vaga,
almànch per queich’ora.
E dman ag turnaràmn
a pinsèr
ma stasìra, per piasér,
lasésess stér.
Amo la terra
tutta e sempre
ma in autunno
quando la luce di un sole
più calmo
la fa vibrare con note minori
bè, io l’adoro
e mi fermo a guardarla
meravigliato come un bimbo.
Spunta tra le nuvole
una luna quasi piena
e ostinata.
Quasi bagnata
da una pioggia marzolina
anche se è ottobre.
Non ci sono più
le stagioni di una volta.
Perché, forse noi,
siamo gli stessi?
Si vendemmia perché è autunno
è autunno perché si vendemmia.
Ho un figlio in mezzo
al mare
che cerca una terra
non solo promessa
ma già avuta
per molti anni.
E poi perduta.
Ci torna stavolta lui
da padre
per continuare
a tenere tesa
una corda strappata
e annodata
tante volte.
La biologica malinconia
sfiora anche quest’anno
una scadenza in parte
inevitabile.
La vita non è mai
la media più o meno esatta
tra le tante cose belle
di oggi
e le fatiche per arrivare
fin qua.
Semplicemente,
la vita scorre.
Tutti sanno caro Ricky
che sei buono
come il prosciutto con i fichi.
Ma anche senza fichi e prosciutto
con coca, vino e salame
ci scapperà un bel rutto.
E se qualcuno farà la faccia storta
con una risata seppelliremo
la sua vita smorta.
Nel tuo sterminato mondo
mi lasci entrare piano
ma mai fino in fondo.
Mi ricordi ogni giorno
che prima di lamentarmi
devo guardarmi Intorno.
Sei una persona bella
che rende migliore
questa povera grande terra.
Il verde di questi giorni
sì che è verde.
Entra deciso e gentile
dagli occhi
e poi nutre l’anima
di una fragile calma.
Il verde di questi giorni
sì che è verde.
Brilla gioioso
pur sapendo che
non sarà per sempre.
Perché questa peonia
ha sbocciato petali
che con forza di ragazzo
son diventati fiori così belli?
Perché l’ha fatto
quando pochi giorni dopo
con la fragilità di un vecchio
sarebbero caduti a terra?
Perché sapeva
della prossima primavera
e quindi nessun doloroso addio
ma un semplice arrivederci.
Il vento gentile
scuote il grano verde
e le spighe
non si chiedono: “Perché?”
Buon Natale a tutti quanti
a chi è didietro e a chi è davanti,
a chi è in alto e a chi è in basso
a chi ha un diamante o solo un sasso.
Buon Natale a chi ha niente e a chi ha abbastanza.
A tutti quanti: pace amore e uguaglianza.
Lo so che le foglie rosse
hanno dato il lambrusco
e quelle gialle il trebbiano.
Lo so che in quel campo
là sotto cova il grano.
Sono uomo di collina
e non di piano.
Non parlatemi di compleanni
e non fatemi auguri
che durano il tempo
di una lavatrice
o di una cena
preparata controvoglia.
Dimenticate il mio compleanno
perché non è un alert
dello smartphone
ma la fine di dodici mesi
e l’inizio di altri
trecentosessantacinque giorni
in attesa di un nuovo giro.
Per favore
non parlatemi di compleanni
che non voglio festeggiarmi.
L’ultima ristrutturazione
l’ultima motocicletta
l’ultima annata di lavoro
pieno.
Troppi “ultimi”.
Forse nemmemo ultimo
sarà quel respiro
che dicono definitivo.
Quando la sveglia è una liberazione
nemmeno la notte ha portato un po’ di quiete
ai miei occhi così stanchi di vedere
alla mia bocca di parlare
e alle mie orecchie di sentire.
Allora guardo i miei testicoli
lunghi come la mia impazienza
e scendo dal letto per vigliaccheria.
Ma ‘na via ed mèz, mai?
Préma as duviva sàimper fer quèl
e adésa a nes fà mai gnint.
Préma as duviva sàimper andèr
e adésa a sam sàimper férem.
Ma ‘na via ed mèz, mai?
Fino a pochi giorni fa
la quercia sembrava secca.
Ieri d’improvviso
ho visto le sue foglie verdi
scagliate nella luce serotina.
Lassù la luna osservava tranquilla
questa incommensurabile
pace
che asciugava
un’altra giornata di fatiche.
Adesso che invecchio
si rafforza in me
l’utopia
di tenere insieme tutto.
La moglie
e la compagna di prima
e quella di ora,
le sorelle e gli amici.
Un accumulo di affetti
e non sottrazioni dolorose
per malattie, incidenti
o decisioni più o meno
tali.
Vecchiaia e utopia.
Ogni stagione ha i suoi colori.
Questi sono morbidi e attenuati
da un freddo che promette neve.
Guardarli dal caldo della casa
richiede gratitudine.
Questi rami spogli
non sono secchi
ma solo più leggeri
per sopportare meglio
l’imminente inverno.
Una piccola lacrima
di nostalgia
in attesa
di una nuova primavera
data quasi per scontata
Anche quest’anno
resteranno solo stoppie
arroganti
a sgonfiare pian piano
l’estate.
E il solstizio
accorcerà i giorni.
M’impiccherei al pensiero
che non mi pensi più
o, peggio, MAI.
Ci fosse Venere
sarei da tempo cenere.
Non siamo gente
di pianura.
Mio zio scese
dalle prime montagne
e annegò
in un canale di bonifica.
Dondolo sull’amaca
in mezzo alle lucciole
e mi faccio bastare
tutto questo tanto.
La mia donna con una peruviana
e sua madre anziana
in un pronto soccorso
che di pronto
nemmeno ha un morso
di una mela ormai finita.
E poi ditemi se questa
è vita.
Dopo che in questi giorni la pioggia
si è affacciata con discrezione
c’è un verde che brilla
e riempie gli occhi. E da lì al cuore.
Laggiù, quasi da sempre,
la casa mi aspetta.
Sono troppo ferito per amare
e troppo fragile per essere amato.
Tentenno tra una sponda e l’altra
e non so aspettare.
Intanto, affogo in una tristezza
nascosta e zoppa.
Un gallo canta in ritardo
lontano laggiù.
Qui una quercia sicura
mi dà appoggio
mentre un sole rotondo
scalda almeno fuori.
Sto su un argine
come spesso succede.
Non so lasciare
perché sono nato lasciato.
Aspetto.
I blister
scandiscono i miei giorni
come una clessidra chimica.
Ogni confezione
finita mi dice del tempo
passato.
Ogni ricetta
nuova mi ricorda inesorabile
la mia vecchiezza.
Fluidificanti,
anti qui e anti là,
adesso anche anti dell’anti.
Una farsa.
Oplà,
uno sgambetto
e tutto scompare
senza preavviso
e senza pietà.
Parole, movimenti e sorrisi
diventano neri e sordi,
immagino ci si senta
come un cantante muto
o un ballerino senza gambe.
O un fotografo cieco.
Immagino.
Spero che il buio
e il silenzio totali
possano pia piano
sciogliersi.
Spero che laggiù in fondo
rimanga una piccola
seppur fragile voglia
di ballare e cantare.
O almeno fischiare.
Auguri!
Giocavamo lungo i fossi
pieni di salamandre
sane.
Tu quattro e io cinque,
una passerella
univa le due case.
Adesso le salamandre
non ci sono più
e nemmeno la passerella.
Ma sappiamo ritrovarci
con affetto e con rispetto
su due sponde non uguali
ma nemmeno così
diverse.
Le rughe sono i fossi
che non ho cercato
ma ho dovuto superare.
Le rughe sono
i segni della fatica
dei miei occhi.
Gli occhi sono
lo specchio
dell’anima.
Le rughe sono cicatrici
che mi ricordano
che in fondo ho vissuto.
Non si muore
per troppi problemi
o per un dolore acuto.
Si muore
per quell’infelicità
lunga e piatta
che come una lima sorda
non ti lascia godere
ciò che davvero ami
per poi morirci dentro.
Si sfoglia il pioppo
come gli anni
si staccano
dalla vita
per preparare
ciò che non sappiamo
se sarà arrivo
o sarà partenza.
M’incanto come un bimbo
a guardare il trattore
che zappa.
Le zolle si sfarinano
e l’erpice
pareggia la terra.
In questa perfezione
sento l’attesa
della semina.
Manca solo la neve
a ricordarmi
la pazienza.
S’arrossano a fine ottobre
i vigneti
accesi da un sole
generoso.
Inghiotto folgoranti colori
perché la mia anima
sopravviva
quando ci sarà la nebbia.
Si riposa la vite
che ci ha dato l’uva
perché il vino
diventa grande da solo.
L’estate scollina nell’autunno
in questa notte rotonda
e dolce.
Ah, saper ascoltare
i sentieri delle stagioni,
camminare leggeri
sul tempo
che ci è dato in prestito.
Assecondare il respiro
che tanto lui sa
come fare.
Lo so che son parte
della tua insoddisfazione.
Non mi piace
ma non ho voglia di farci niente,
così è.
Per tenere uno come me
ci vuole scorza, non solo forza.
Lo so che mi vuoi bene
ma non ti vado bene.
Non posso sempre
cercare
quello che non c’è.
Adesso devo bastarmi.
Lavorare fino a tardi
e dopo una giornata impegnativa
regalarsi un po’ di tempo
per tagliare l’erba
e sentire
la stanchezza che da acida
pian piano diventa buona
Si trebbia
e l’estate
inizia la discesa
per incontrarsi
tra alcuni mesi
con l’autunno
e cedergli
signorilmente il passo.
Mi piace questo grano
che si abbronza
dopo la fatica di crescere.
Mi commuove la sua generosità
nel farsi bello
per diventare farina
e poi pane.
D’in su la collina della casa antica,
papavero solitario
alla campagna fiorendo stai
finché la mietitrebbia non ti recide.
Io solitario indugio in altro tempo
e sento che la beata gioventù vien meno
e che solinga incede la vecchiezza.
Ma con gli occhi e col cuore
non mi volgo più indietro
e mi godo un presente né noioso o tetro.
Non so che ne sarà di quest’anni miei
o di me stesso,
né quando passerò la finale soglia.
Sento che anche l’anno venturo
ci saranno papaveri a colorare il grano.
E questo mi basta.
(Giacomo, scusa)
Verdeggia il grano
in attesa di imbiondire.
Normalmente
la sera scivola nella notte
con una voglia di pioggia.
L’aspetto senza fretta.
Fiorisce il rosmarino
in un accenno di primavera
zoppa
perché orfana
dell’inverno
vero.
Venticinque croci
che piagano le spalle
e appannano
i pochi sorrisi rimasti.
Le ultime non hanno
filo spinato
nè cocci di vetro.
Rimangono quei tagli
che hanno inghiottito
la semplice gioia.
Il cielo è una meraviglia
fresco e chiaro con le sue punteggiature
di stelle.
La luna irrompe con garbo
per far parte di questa bellezza
senza interromperla.
Adoro i miei calanchi
sanno di antico e di mare
e di come il mare possa
asciugarsi.
Sanno di crepe
a perenne ricordo
e di fossili rimasti.
Mi ricordano l’inezia
delle nostre vite di fronte
all’eterno.
Le panchine si riposano
dalle tante chiacchiere
che hanno ascoltato.
Non dicono delle idiozie
mai risparmiate
o dei triti luoghi comuni.
Tacciono anche
sulle parole degli innamorati
o sui rimpianti dei vecchi.
Le panchine stanno in silenzio
ad aspettare la neve.
Il melograno è ancora verde
ma il vermiglio dei fiori è sbiadito
per far nascere queste palle
dai grani succosi.
La mano ha rughe evidenti
e qualche macchia dell’età
che non lascian traccia
di quando pargoletta era.
L’orto non è più solingo,
proprio non c’è più
perché si faticava a tenerci dietro
e tutti gli ortaggi
venivano pronti insieme.
La terra è ancora tiepida
della luce e del calore di giugno
e si appresta al giusto letargo
senza alcun antico pianto.
Anche se un po’ percossa
questa vita non è del tutto inaridita
e credo nemmeno inutile.
Sono nell’autunno del cammino
che seppur non riverdirà
potrà godersi ancora
il risveglio a primavera
quando il melograno
lui sì rifiorirà.
(con infinite scuse a Giosuè)
Calda e accogliente
terra mia
profumata e paziente
terra mia
sincera e generosa
come una buona sposa
A un oste gioviale e assoluto
un triste ricordo e un caro saluto,
grembiule rigorosamente d’ordinanza
ciccia e vino in pantagruelica danza
fosse una seria e sontuosa cena
o uno spuntino con Cinta di Siena.
Serio e compunto nella sua cucina
a cuocere tenera carne argentina
allegro dietro al lucido bancone
soddisfatto della sua ambizione
per quel locale da sempre voluto
dal nostro oste col viso paffuto.
Guiglia è più triste di certo ora
senza il nostro oste della malora
e quel portico rimarrà più vuoto
piangeranno le bottiglie di recioto
e sconsolate quelle di nebbiolo
ognuno di noi oggi è più solo.
Quartantadue anni davvero son pochi
per partire di fretta e spegnere i fuochi
di una cucina bella e generosa
per salutare la figlia e la sposa
per tirare giù così male la serranda
e lasciare attonita tutta la banda.
Avrai di certo visto quanti amici
ti scrivono tanti messaggi infelici
però forse tu non vorresti così
e allora in alto i calici: prosit
per fare a Willy un brindisi finale
ma nella gola un nodo ci assale.
Mi piace vagare
da solo
tra i filari di un autunno
che anche quest’anno ha mantenuto
la sua promessa.
Là in fondo
tra le foglie rosse della vite
intravedo la piccola casa gialla
dove sono sempre stato accolto,
quando il tempo fuori era proprio brutto.
Spunta il sole e io mi fermo, grato.
Mi sento un re e in parte lo sono.
Non sempre, ma adesso sì.
Verrebbe voglia di assaggiare queste zolle,
tanto sanno di buono.
Anche se è stata arata con lame di acciaio
la terra non è offesa e si prepara
ad accogliere altro seme.
Non è ‘terricidio’, come accade a noi miseri umani: è vita.
Il melograno si nutre per dare nutrimento
e con generosa pazienza aspetta di essere colto,
una rosa accenna provocante un tango seducente
adocchiando i ciclamini,
parte una danza che sa di amore e di passione,
di dolcezza ed energia.
La carreggiata sembra finire
ma là in fondo un’altra incomincia.
Basta saperci arrivare e non tornare indietro
per vedere quella meraviglia di viale alberato,
basta guardare e fare un click,
senza rubare nulla e senza nulla rovinare.
Grazie!
La Finanziera controlla il mare
se non da sempre da molto.
Mi piace chiamarla così
questa bianca casupola
sugli scogli
dell’Enfola,
quasi sopra Sansone.
Si narra abitata nei tempi
da Finanzieri o Guardiacoste.
Ora non ha più briganti córsi
da catturare
o contrabbandieri nostrani
da affondare.
Briganti e contrabbandieri
eccome se ci sono ancora,
soprattutto briganti,
ma hanno scelto altre onde.
E adesso la Finanziera
guarda ma non controlla
il mare
e sente così nuovi afrori
e vede più limpidi colori.
e si appoggiano
casco, guanti
giacca e stivali.
Nelle orecchie
ancora per poco
il rombo dei cilindri
e le risate degli amici.
Un leggero stordimento
segnala il passaggio
dalla spensierata
regressione infantile
alla puntuale realtà.
Rimane morbido
che il giro migliore
sarà sempre
il prossimo.
Oh se lo so
cos’è l’insonnia
la paura che appena chiusi
gli occhi
parta quel gorgo
ostinato e contrario
che riporta a galla
pezzi d’esistenza
forse in fretta
accantonati
che fanno rumore
per essere ascoltati.
In entrambi i casi,
svegli o preda dei sogni
frammentati e confusi,
c’è un’immane fatica
per le membra
e per le anime
fino a un risveglio
un po’ triste e spossato.
LV tra il 30 e il 31 agosto 2015
La donna dei profumi
ha fragranze tenaci
che insaporiscono
una vita in salita.
La donna dei profumi
ci tiene al suo decoro
e non lascia che la vita
la spettini troppo.
La donna dei profumi
è stanca per davvero
ma trova sempre il tempo
per essere bella.
La donna dei profumi
profuma di poesia
che spruzza leggera
con classe e competenza.
La donna dei profumi
profuma di vita
nonostante e comunque
in attesa del riposo.
La mia mente
a volte
chiede al corpo
con urgenza
di essere stancata
fino al punto
di fermarsi.
E allora
è l’ora delle gambe
e del sudore
e lentamente
si spengono i pensieri.
Cogito ergo sum?
Ma no,
ambulo ergo sum,
finché una vasca ben calda
ricompone testa e pensieri
mentre il cuore
torna a sorridere.
Meno elucubrazioni
e più carezze.
Il poeta e scrittore
triste
allasca le vele
in un banale hotel
piemontese
di fine agosto
mendicando patetico
e inutilmente
le ultime briciole
d’amore.
Ma con la bianca Leucò
non c’è più dialogo
possibile.
Allora
disoccupa la vita
e con un tubetto
si licenzia
dal mestiere di vivere
chiedendo almeno
pochi pettegolezzi
in cambio
di un forzato
generico perdono.
Chi è costretto
a mendicare amore
non è amato
e senza amore
né pietas
non si respira
e non ci sono più
compleanni
da festeggiare.
Non baravo
quando ti dicevo
che volevo carte facili
perché venivo da partite
troppo difficili.
Non mi credesti
o peggio
non mi ascoltasti
e adesso sudiamo
una mano scontrosa
che non credo
avrà vincitori.
A me sta bene
anche un pareggio
perché la vita piana
è per i dilettanti,
preferisco un gioco
rischioso
a qualsiasi solitario.
Perchè le ore belle
scorrano leggere
e quelle brutte
passino in fretta.
Buon tempo,
Beatrice.
Stanno sedute
sui monti
le nuvole flaccide,
come culi bianchi
sull’asse del water.
Pioverà?
Il grasso scampanare
delle mucche
e l’isterico squittio
delle marmotte.
Un buon ricordo
velato di malinconia
che s’invola gentile
spinto da un vento leggero
e dall‘acqua corrente
del ruscello.
La montagna regala pace
da conquistare
con passi sudati
per godersi al ritorno
i fiori i colori e gli odori
in salita annebbiati
da una buona fatica.
I poeti non sono gli ingegneri
della parola,
costretti tra rime baciate
o incatenate.
Non ricercano ostinati
endecasillabi o novenari.
Non cesellano distici
o metriche perfette.
I poeti sono viandanti
che esplorano con pudore
l’invisibile tela dell’anima.
(grazie a Federica R. per il titolo)
Spegnete le tastiere
che inquinate l’aria
di inutili parole.
La poesia è pudore.
Stasera l’aria sa di letame,
s’ingrassa la terra
per prepararsi
a un altro raccolto.
Annuso l’odore di merda
che sa di viva natura
e un cielo ricamato di stelle
mi sussurra di stare tranquillo.
Un incessante cinguettio
di uccelli diversi e ostinati.
Non è twitter ma il bosco
e in questa fortuna
il libro può appoggiarsi
al petto.
Le parole si rinchiudono
tra le pagine
nell’attesa che il lettore
consumi in pace
il meritato riposo
che sospende i pensieri.
Rotondeggia stasera
una luna allegra
accompagnata
da leggere striature
di nuvole timide
o forse educate
che non tolgon la scena
a questa luna piena.
I grilli e le rane
canticchiano una melodia
sulla quale le lucciole
danzano intermittenti.
Un leggero vento
accarezza le cime dei pioppi
e tutto questo
mi sembra più che abbastanza.
Vola dai pioppi la neve
irriverente ma lieve,
volteggia con eleganza
una raffinata danza
senza fretta alcuna
di abbracciar la luna.
Prima o poi si posa
come nel letto la sposa
e la natura mi insegna
una pazienza serena.
Pare strano
ma in quelle vene legnose
scorreva davvero
la magica linfa
che ingrossava grappoli
opulenti.
Poi scaturiva un lambrusco rosso
semplicemente schietto
e spumoso.
Onore delle armi,
tralci generosi,
da chi si è con abbondanza
abbeverato
alle vostre allegre vene.
Un elegante tappeto
di foglie gialle
sullo stradello
che al mattino mi porta
e alla sera mi prende.
Si accende così
la giornata,
anche a metà novembre.
Si può.
E l’autunno
con i suoi colori
dolci e decisi
ci dice
che anche al tramonto
può fare bello.
Si sta proprio bene
qui fuori
questa sera.
Il canto soffice
dei grilli
sorregge il fumo
leggero
del toscano,
avverto le piccole danze
delle foglie ormai
stanche
e mi riempio
di questo sontuoso silenzio
pieno di pace.
S’infrange quest’acqua consueta
sul tempo che sa di ricordi.
Sussurra questa brezza gentile
sul viso dal tempo segnato.
Riscalda questo sole fratello
il freddo dei tempi cattivi.
Accoglie questa terra isolana
chi naufraga un poco impacciato.
Rivive questo fuoco di vita
per chi chiede educato altro tempo.
Rose e ciclamini
qui a casa mia
con settembre che apre
le porte all’autunno.
Luce morbida
e ombre allungate
odore di terra arata
e voglia di vendemmia.
S’ciao estate.
Mi piace
lo sferragliare ostinato
dei cingoli del trattore
che ara una terra
che vuole ingravidarsi
di nuovo per rifiorire
dopo un inverno atteso.
Le mie belle colline
mai aspre e mai piane
vite vicine e lontane
di fantasie bambine.
Metafora rotonda e lieve
reale o desiderata chissà
che non cancella le asperità
di una vita non breve.
Partono timide dalla pianura
e salgano fino alle montagne
alternando filari e campagne
gustiamole … fin cla dura.
La magica linea
delle nostre campagne
ci accompagna
in un sontuoso risveglio
e ci culla
un commovente odore
di fieno.
Ti assomiglia
la bimba bionda
vivace e curiosa.
Ti piacerebbe.
Le piaceresti molto
anche tu,
nonna mancata.
E’ bella
e con i capelli lunghi
e biondi,
è sveglia e dolce.
Sa di te
e della tua infanzia,
lo so anche
se non c’ero.
Sa di nostro figlio
che e’ davvero
un bravo papà.
Ti piacerebbe
e so che lo sapevi
che lo sarebbe stato
e che ci sarei stato.
E cosi è stato
ed ora manchi,
ma non nei pensieri.
Stai pure tranquilla,
ora.
Siamo qui anche quest’anno
da Giancarlo e dalla Tina
tanto buon gnocco ci danno
e ben piena è la cantina.
Si beve e si mangia con gli amici
si ride su parole leggere
e sono proprio momenti felici
come tante nostre sere.
Si, c’è lo spread e la disoccupazione
la Merkel, la BCE e Berlusconi
ma non può strozzarci la preoccupazione
e non lasciamoci rompere i c……i
E allora in alto i nostri bicchieri
e fin cla dura tri sold in saca
brindiamo all’oggi e non all’ieri
sàimper in baràca, sàimper in baràca!
I bambini
guardano il cielo,
i vecchi
la terra.
I calanchi,
aspri ma mai cattivi.
Come certi vecchi
di poche parole.
Quando mi prendi la mano
mi sento il capitano
della nave più bella del mondo
ed il cuore mi diventa rotondo.
Le bucce del mandarino
sulle braci del camino
(ri) accendono il mio sorriso
bambino
Assetato e bruciato
da un sole cattivo
mi lasciavo trasportare
da una malridotta barchetta,
mentre intemperie
disumane ed ingiuste
mi frustavano dentro
senza pietà.
I desideri si seccavano
e l’infelicità
marciva lo scafo.
Ma tenevo dritta
la barra
del timone ormai spezzato,
spinto dalla inconsapevole
voglia di andare ancora.
Poi uno scirocco
da sempre forse atteso
mi ha allontanato
da quelle secche infelici.
Ancora mi cullano
le onde della malinconia,
ma non sono più
frustate senza
speranza.
S’arrossano a fine ottobre
i vigneti
accesi da un sole
generoso.
Inghiotto folgoranti colori
perché la mia anima
sopravviva
quando ci sarà la nebbia.
Vite, ci hai dato l’uva.
Adesso riposati
che il vino
diventa grande
da solo
Le mie colline
sono mammelle
piene di radici buone.
Là in fondo
sonnecchia la pianura
mentre alle spalle
la neve spolvera il Cimone.
Noi delle colline
siamo gente di mezzo
forse per sempre
indefinita.
Ho sempre scavato
con piccone pala e badile
per cercare quel po’ di bene
che asciuga il passato
fa godere senza arroganza del presente
e costruisce con umiltà il futuro.
Qualcosa prima o poi
ho sempre trovato.
Sono qui solo.
Ma non è vero.
Il frinire delle cicale
e il fiume che scorre
ci sono.
Come i pioppi che fanno
ombra
anche ai miei
cattivi pensieri.
Io ci sono
e come uomo
nato sul fiume
scorro.
Tempi strani, questi.
Cadono le difese immunitarie
delle emozioni
e l’anima sanguina
per rimarginarsi di nuovo.
Fluisce una stanchezza
disumana e feroce
che ha comunque costruito.
Ci vuole pazienza e competenza
per attraversare
questo mare salato.
Si sente forte il bisogno
di un porto senza àncore.
Le parole servono
per essere scritte
prima ancora
che per essere lette.
Scrivere a volte
è un obbligo,
leggere spesso
una necessità.
Forse…
La solitudine essenziale
é quandi si é
asimmetricamente
su frequenze diverse.
Non ci sono colpe
nè rimorsi:
semplicemente succede.
In una notte bella
anche se freschina
le lucciole
mi hanno insegnato
l’intermittenza
del vivere.
Il profumo delle acacie
amplificato dall’aria di pioggia
è inebriante.
Sentirlo ancora
senza indifferenza
è un lusso!
Spirali incontrollate
di rancori non detti.
Nodi gordiani
di infelicità solitarie.
In un silenzio da serpenti
si scava una fossa
di tragiche incomprensioni
e mancati desideri
mai urlati.
Finché il grigio si espande
e una viva tristezza
inesorabile strozza la gola.
Così finisce un amore.
Mio figlio e sua figlia.
Guardano l’ombra
del mondo.
Mi dà felicità
sapere
che quando
i miei occhi
saranno troppo
vecchi e stanchi
altre pupille
vedranno
C’est la vie.
Quelle briciole dei cracker
non erano un’offesa
ma tracce preziose
per ritrovare
la strada.
Quei pomeriggi
piegato sul divano
non erano irrispettosi
ma il sacro segnale
che lì potevo riposarmi.
Quel sudore forse acre
non era voluto
ma l’ultimo prezzo
che dovevo pagare.
Peccato che non
sia stato così.
Peccato.
Non mi resta
che riprendermi
la bicicletta
e scambiarci
le chiavi.
Peccato.
Mi fermo e fotografo.
Vorrei conoscere come mai
solo quel cocuzzolo
è rimasto imbiancato,
conoscere il gioco di correnti fredde
e di soli di squincio con angoli mutevoli e ignoti.
Se così è un senso deve esserci
e fors’anche una ragione.
Poi finalmente ho lasciato perdere
ed ho solo guardato.
A te
ragazza che mi fai ballare
senza che nemmeno
conosca il tuo nome,
in una notte
per altro sacra.
Vorrei denudarci
e sentire la mia vecchiaia
naufragare
nel tuo sesso allegro…
Le colline rotonde
smussano gli spigoli
delle nostre vite
mai piane.
Quegli amori per prati e per boschi
quanto allora ci siamo voluti
venerdì lunghi e pieni di rischi
mentre adesso ci siamo perduti.
Non avevi neanche trent’anni
ed io nemmeno quaranta
non sentivamo neanche gli affanni
in quella tregua finalmente raggiunta.
Ci lasciavamo macerie alle spalle
cercando ostinati di mettere in salvo
una scelta per gli altri un po’ folle
ma per la quale anche adesso mi assolvo.
Ne abbiam patite di cotte e di crude
e quasi niente ci fu risparmiato
in quel pantano in quella palude
dove ogni tanto ci mancava il fiato.
Ma bastava stringerci forte
e guardarci negli occhi arrossati
per capire che della nuova sorte
eravamo da tempo affamati.
Andavamo per mare e per monti
e anche i fiumi andavano bene
le domeniche come dei ponti
per lasciarci alle spalle le piene.
Quelle piene di paure e rimorsi
e di colpe anche solo accennate
ma bastava arrivare e baciarsi
per sentire le ansie placate.
Tu astemia ed io buon bevitore
quanti tavoli ci han visto seduti
a parlare senza contare le ore
in quei momenti nostri e assoluti.
Come bambini felici e curiosi
quanti cieli abbiamo solcato
per andare in Paesi avventurosi
quanti mari abbiam navigato.
Ci piaceva andar per antiquariato
cose vecchie senza pretese
quanti mobili abbiam restaurato
quante teiere son lì ancora appese.
Poi qualcosa pian piano si è rotto
e sembrava ci facesse paura
solamente pensare al cazzotto
che poteva uscire da ogni fessura.
Siamo stati davvero testardi
ma in fondo ci siam rassegnati
e anche ora che è già troppo tardi
io lo so che ci siam tanto amati.
Quel cazzotto però adesso è arrivato
con la rabbia che chi ha paura sa avere
più che arrabbiato io sono sfinito
assetato senza avere da bere.
E “per sempre ma non so come”
vale ormai solo per il ricordo
si allontanano le tue nere chiome
in un volo forse un poco d’azzardo.
Ma ti lascio con un mio sorriso
di quei pochi che ancora so fare
senza rabbia e senza buon viso
e ci guardo pian piano andare.
Senza fretta l’alba
finisce una notte
insonne e voluta
in un lusso raro
di silenzio assoluto
senza rumore.
I pensieri
che prima cercavi
senza trovare
salutano il giorno
e quelli contorti
allentano i nodi.
Le coperte sicure
ti aspettano
contente di averti
e quando
apri gli occhi
mezzo giorno è passato.
I piccoli cimiteri di montagna
sanno di una pace infinita
e sono lì a ricordarci
che la morte fa parte della vita.
Le mie terre sanno essere
gli aridi calanchi
che da Denzano piano piano
portano a Marano.
Ma sono anche
i vigneti di lambrusco
che dolci si appoggiano
alle colline sensuali
Le mie terre si fanno bagnare
dal Guerro e del Panaro,
mai torrenti né fiumi
sempre senza pretese.
Noi siamo le nostre terre.
Non so più
se sia la fatica
che si stanca
oppure io
che mi ci abituo.
Comunque
seppur minima
la tregua.
Un cane che latra
un trattore che ara.
Lontani.
Ormai come l’estate
che sussurra un tiepido caldo
da ricordare.
Cade una neve di pioppo leggera.
Volteggia elegante e scherzosa
al volo cogliendo
quel poco di vento che c’è.
Morbida e discreta si appoggia
sull’erba ancora immatura
disegnando ai miei occhi
una metafora ambita.
Non ho voglie da condividere
né frenesie da soddisfare.
Mi bastano queste coperte
per tenere fuori
(il più possibile) la vita.
So che prima o poi
mi ci dovrò tuffare
ma esito come un nuotatore
inesperto quale sono
nonostante anni di goffe nuotate.
L’acqua non fa per me
eppure mi tocca immergermi
sempre più controvoglia
e sempre con la voglia appena tuffato
di risalire.
Tutto costa il doppio e forse ancor di più
lungo questa strada senza dichiarata scadenza
che dovrà pur portarmi
nel ventre di mia madre e nello sperma di mio padre
dove tutto è cominciato.
Le chiavi
sono nella cassetta
delle lettere.
Qui,
a farmi maltrattare
come un qualsiasi ospite
indesiderato
non ci resto.
Mi porto via
i miei due stracci
e il mio sudore.
Ho bisogno del mio letto
e della mia casa,
della luna che d’inverno
si sposta piu’ in la’,
verso l’altra acacia.
Qui, da me,
mi ritrovo e mi tengo:
appartengo.
Latte e caffè,
un contrasto non dissimile
dalle strisce bianche e nere
dove hai lasciato
il tuo ultimo respiro,
spero abbastanza leggero.
Guardo una fotografia
di quasi cinquant’anni fa:
sbagliavamo solo di una vocale,
che sulle dodici lettere
del nome e cognome
sono in fondo un’inezia.
Eravamo, siamo
fratelli.
Penso al tuo cappuccino
di mattina presto,
sottile piacere
di una vita in salita.
Che la vita, allora,
ti sia finalmente
leggera.
Un toscano Presidente
e un buon Calvados.
Il tempo sembra cambiare
ma va bene cosi.
Le lucciole viaggiano intermittenti.
Le guardo e mi basta.
Monconi di legno
aspettano i turisti
per ripararli dal sole
con ampi e troppi
ombrelloni.
Il mare arriva
con onde modeste
e un rumore che ci sta.
Bambini rincorrono
un pallone
su una sabbia non ancora
asciutta.
Il mare, il sole, la sabbia
e bambini e palloni.
Elementi semplici
in cui affondo piano.
Trangugio vuoti di senso
e so che invece di scoppiare
continuerò a sprofondare
inesorabilmente,
pesante come questo avverbio
che non so trovar di meglio.
Se solo sapessi buttar via
le cose che non capisco
e lasciare andare
quelle che mi fanno male,
se potessi bucare la colma vescica
di rancide colpe.
A che serve sapere
da dove si è partiti
se non si immagina più
dove si potrà arrivare?
Mi attraverso con noia e fatica
e costruisco una solida solitudine.
Anche i grilli hanno caldo
questa notte
e friniscono piano,
quasi per dovere.
Mi sudo un altro giorno
e aspetto un po’ d’amore.
Come un cane elemosino
una carezza
che non arriva.
Non ho dignità.
Poi si diventa cattivi.
Finita è la discesa.
lasciamo la baita
per la solita pianura.
Finalmente!
E’ venerdì sera
la sera degli amici.
Risate
piene e allegre
smussano
una fonda stanchezza
mentre una luna piena
accompagna
la fine
di un’altra notte.
Si stacca l’amaca
dagli alberi
che l’hanno sorretta
per darci fresco riposo.
Si stacca la pompa
dell’acqua
perché non si irriga più
e d’inverno gela.
È autunno
e una leggera malinconia
sorride:
son tornati i ciclamini.
Anche i grilli
hanno caldo questa notte
e friniscono piu’ piano,
quasi per dovere.
Mi sudo un pezzo d’estate.
Mi sento pieno di vuoto
e so che invece di scoppiare
continuerò a sprofondare
inesorabilmente,
pesante come questo avverbio
che non so trovar di meglio.
Se solo potessi buttar via
le cose che non capisco
o che non mi fanno bene,
se solo sapessi bucare
la vescica pesante
di rancide colpe.
Non conta più da dove si è partiti
e purtroppo non conta più
nemmeno dove si arriverà.
Attraverso tra noia e fatica,
con discreta competenza,
i giorni che fanno i mesi
e i mesi che fanno gli anni.
Aspetto.
Ho una tristezza addosso
che mi piega la schiena.
Le lacrime non possono uscire
perché sono troppo stanco.
Però non si rassegnano
e così mi fanno male.
Non vedo l’alba
anche se so che ci sarà.
Non ci sono diari da riempire
ma solo pene da attraversare.
Sono crudeli i ciliegi in fiore
quest’anno,
perché guardano putrefarsi il tuo corpo
che ho amato.
Lo so che anche le stagioni scivolano sul tempo,
ma almeno sono eleganti e puntuali.
Qui invece vedo la disperazione senza senso
di un’inutile attesa.
Scorrono veloci le immagini gioiose
di tempi ormai passati e di cupe rabbie.
Si nutrono insaziabili sensi di colpa.
Arriverà, come il ladro in una notte buia,
il momento finale.
Non si e’ mai preparati abbastanza.
* * *
Quest’anno sfioriscono presto i ciliegi,
e’ una primavera tronca.
Ti vedo diventare grande
concimato da troppo dolore.
Sei il nostro frutto, un bel frutto.
Affronti con dignità e coraggio
l’inutile cammino verso l’evento finale
forse atteso.
Nulla ti e’ risparmiato e nulla sorvoli,
attraversando il sentiero di rovi
che ti porterà ad essere definitivamente adulto.
Vorrei dirti che il dolore matura
ma sento la farsa di queste parole.
Vorrei prendermi io le tue spine e la tua croce,
un padre cireneo.
Ridicola pretesa: nel dolore si e’ comunque soli.
Una tapparella sale nervosa
per fare entrare
un sollievo che non c’è.
Il collo sudato
bagna il cuscino
di sgarbata irritazione.
La notte d’estate
in città chiude in casa
il caldo eccessivo del giorno.
Sale forte la nostalgia
della fresca robinia
del bosco in collina.
Siamo ingenui:
vorremmo sempre essere
da un’altra parte.
Di notte le stelle
punteggiano
un bianco lunare.
Di giorno il sole
abbraccia
una neve abbondante
che voluttuosa
si scioglie.
Comunque neve.
Scendono fiocchi incerti
che sanno di pace.
Rimangono
poche chiazze
sparse
di neve
sopravvissute
allo scirocco.
Non sempre
il caldo
fa bello.
La pesante solitudine
di una strada bagnata,
quindi umida.
La piacevole leggerezza
di stare comunque in piedi,
da solo.
La pioggia scroscia
solo quando arrivo a casa.
Grazie.
In fondo gli anni
si vivono,
non si contano.
Il grano è stato trebbiato.
Restano arroganti stoppie
che sgonfiano
piano piano
l’estate.
Piove l’acqua
di un cielo
generoso.
La mia fretta
impulsiva
di giorni e scadenze
si spegne
nello scorrere
di una lumaca.
(con Piero)
Arranco
come un giunto
arrugginito
mentre la luna
mi copre
di pietà.
Ma ha un senso
questa mia fatica?
Sento forte
i giorni che pigri
mi rotolano addosso.
Non c’è l’allegria
delle capriole di un bimbo
nè la calma ovattata
di un gatto sornione.
Come un cane randagio
fradicio di disperata
rassegnazione
mi allontano svogliato
da bastonate impreviste
che da dietro l’angolo
possono comunque spuntare.
Infiniti punti nel cielo
disegnano tracce parallele
di destini incrociati.
Suoni e musiche
nel silenzio
riempiono
uno spazio infinito.
(con Francesco)
Siamo
i pellegrini
delle colline
mai piane.
Sono arrivati
anche quest’anno
i ciclamini quasi rosa
a portare un autunno
che non perdona
e per noi senza letargo.
Vorrei si sbrigasse
la primavera…
Ma sono stanco
di non avere più pazienza
ed ho fretta di imparare
ad aspettare.
Il cielo è carico
di elettricità viva
che spinge con forza
la pioggia per terra.
Dentro il vino scorre
su parole rotonde
che ricamano pensieri
trasparenti e profondi.
Fuori il fumo
di una sigaretta
incrocia quello
di un sigaro calmo.
Le chiacchiere gocciolano
e i fulmini spaccano
un silenzio pieno
che sa di luce.
C’è un brutto tempo
e un tempo che passa
per accorciare la notte
e far posto al giorno.
C’è un altro tempo
che lento consuma
lo spazio assegnato
ai giorni futuri.
Smette di piovere
e ritornano a volare
le lucciole scomparse.
Si può andare a dormire.
Vedere il mondo
andarsene
o arrivare
è solo
una questione
di posti.
Un amore senza sesso
è come un carretto
azzoppato:
va, per andare,
ma sempre in bilico.
Un amore senza sesso
è un crudele gioco
di sottrazioni
e di conti
mai regolati
Il sesso senza amore
è più onesto.
Sotto le colline
la città è un mare
piatto
di indifferenza.
Ma adesso, perché
si è messa a piovere un’acqua
che sa di nuvole stanche
e grigie come la sabbia.
E piene di rabbia.
Non avresti neanche ottant’anni.
E un gorgo di ricordi e pensieri
mi trascina feroce
dentro appuntite nostalgie.
Ci è mancato del tempo.
Una ragnatela triste e pesante
di stretti pensieri
abbandona i sentieri
piani e leggeri.
Mi bagno di malinconia.
Però così non vale
le parole dovrebbero essere leggere
come la neve che piano cade
per paura di fare del male.
Vorrei una sera dolce e tranquilla.
Ma la pace va preparata
con classe e pazienza,
accontentandoci di dare un senso
ad una normale esistenza.
Senza essere né vili né eroi.
E invece non sempre ma spesso.
ingenui e presuntuosi
al vento ci opponiamo
costruendo robuste stanchezze.
O paludi di lunghe noie piatte.
Una leggera seppur fragile
armonia
renderebbe i giorni più giusti
e il respiro più pieno.
Ma la vita piana è per i dilettanti.
I miei passi leggeri
sui morbidi poggi non più pianura
ma non ancora montagna
accompagnano lunghe ombre
sdraiate sui prati.
Un sole generoso asciuga
la brina,
che dopo la notte d’amore con l’erba
spagna,
sospira spossata.
Filari in ordinato riposo
esplodono sgargianti e sontuosi colori,
mentre un vento deciso
gli alberi muove
come in un silvestre maroso.
L’aristocratico e rassegnato castagno
guarda cadere le foglie stanche
di essere da tempo sospese,
senza promettere nessuna nuova stagione
di cui non sente il bisogno.
Irriverenti rose tardive, poco più in là,
offrono gioiose
rossi petali al cielo
ed agli occhi di chi fretta non ha
e il tempo non teme.
Nonostante il Nasdaq in crisi e le borse stanche
sono tornate a fiorire le viole, e anche bianche.
Nonostante il Ferrara con le sue grida stridule
non abortiscono per niente le sontuose primule.
Nonostante le solite finte veline poco vestite
crescono tante eleganti e semplici margherite.
Nonostante Vespa con Erba, Garlasco e Gravina
il prunus biancheggia sovrano questa mattina.
Nonostante Bassolino sui rifiuti stia in posa
il piccolo pesco offre generoso i suoi fiori rosa.
Nonostante imperi la triste elettorale malizia
sorride di nuovo quest’anno la gialla forsizia.
Nonostante la vita non sia sempre liscia e piana
la pianta del rosmarino tiene botta folta e sana.
Nonostante il tempo ricordi puntuale il passato
per chi ci sarà dopo una nuova quercia ho piantato.
Un bocciolo di rosa
sotto la neve
sprigiona una forza
pari alla sua
crudele dolcezza.
Per quanto
incombano dolore
e fatica
tu ancora un po’
ridi con gli occhi
ornati di speranza.
Quando tutto
si confonde
il senso si perde
in un grigio indistinto
vago pensiero.
Cos’é la nebbia
se non una stanca
e pigra nuvola
che non ha
più voglia di volare?
Non fare niente?
Ma no, io voglio fare
voglio fare il niente!
Cos’è il niente?
Il niente è tanto
è grande e buono
e fa bene.
Perchè?
Ma perchè dentro
ci sta tutto,
tutto quello che ho
lasciato indietro
per troppo tempo,
ci stanno i miei
silenzi pieni
e ci sta la leggerezza
liberata dalla fretta,
ci sta l’attesa tranquilla
e senza aspettative
di un filo d’erba.
Nel niente
posso starci io,
cosi come sono.
Andare insieme leggeri
Mentre le onde
Intorno a noi
Cullano la barca
Invitandoci alla pace.
Accompagnarci
Mentre
Il
Cielo
Incombe.
Aspettare tranquilli il
Mattino di sole
Intanto che il mare
Ci prepara tranquillo
Il gusto del giorno.
Passare una sera
con un amico
e ripercorrere
i solchi di dolore
arati
dal ricordo.
Sentire una vicinanza
forte e sincera
mentre i formaggi
il pane ed il vino
si susseguono armoniosi
pennellando un sorriso.
E’ troppo facile
dare lezioni
quando si è in piedi
e la vita sorride.
Provaci sdraiato
e sfinito
nella feroce caldaia
di un impianto
ben fatto.
Lì non c’è posto
per un tuffo
elegante e virtuoso
perchè in fondo
l’acqua non c’è.
Non ti aspetti
consigli
nè soluzioni
a pronta presa
ma una birra fresca
che forse ci sarà.
Tutto questo
l’ho fatto io
e non con sospiri
pensieri e speranze.
Con i fatti
concreti
che senza arroganza
ho messo in fila.
Nel porto si placano
le onde del vino
e i bicchieri del mare.
Cala tranquilla la pace
su burrasche violente
e marosi incoscienti.
Che bello (ap) prodare
e aspettare tranquilli
che venga mattino.
Piove.
E la terra assetata
fa balzi di gioia
e regala un profumo
di fieno bagnato
aprendosi voluttuosa
a quel dono inaspettato.
In questa alba avanzata
sfioro i nostri avanzi
mentre tu parti
ed io ritorno:
c’è stato di tutto.
Nella notte estiva
una piccola lucciola
vaga solitaria.
E’ sopravvissuta
o solamente
nata dopo?
Ridere con la pancia piena
oppure, dopo una lunga corsa,
bere con gusto un bicchiere
e sentire l’acqua fresca
ruscellarti dentro:
tutto questo è il mio
augurio per te.
Nemmeno le messi flessuose
o i vigneti generosi
o gli arbusti tenaci
riescono a coprire
le macerie
di un abbandono.
L’austero castagno
lascia cadere le sue foglie
con aristocratica rassegnazione.
Gioiose rose
offrono i loro petali
con irriverente leggerezza.
Metafora banale
ma fino in fondo reale
del “già” e del “non ancora”.
2 dicembre 2006
Giornata di sole bello
che riscalda la brina di questa notte.
Ho camminato per le mie colline,
non più pianura e non ancora montagna,
seguendo ombre lunghe che si proiettano sui prati.
I filari di vite esplodono
di colori sgargianti e sontuosi.
Qualche piccolo grappolo d’uva dimenticato
emerge e regala un fresco gusto di vino
La mia casa immersa nel verde mi piace.
Ogni stagione ha le sue bellezze,
basta fermarsi a guardare il vento leggero
che muove l’erba spagna con armonia
o chiacchierare del più o del meno con il vicino
tanto da fare passare senza fretta il tempo.
Ho visto amori perplessi
consumarsi con dolcezza
in lunghe costruzioni di assenze.
Storie piano piano scorticate
come quella rocca che si intravede
da quel tetto che richiama
le bianche onde del mare.
Amori consumati fino all’osso
che lasciano la malinconia degli avanzi
o la tristezza di un carpaccio ben cotto.
E’ ancora tardi per la ripresa
e forse già presto per abbandonare.
Meglio restare nel caldo del sonno
aspettando il prossimo vuoto.
Scende una
sera tranquilla
a finire
una buona giornata:
la pace va preparata.
Sì, si può lasciare che il tempo
scivoli pigro sulle nostre ore
come l’acqua salata quando si nuota.
Sì, si può leggere senza studiare
e far scorrere le parole ad una ad una
con un senso che finisce nella pagina girata.
Sì, si può lasciare al sole l’incombenza
di stabilire quando abbandonare il mare
perché l’ombra proiettata ci raffredda
Sì, si può lasciare che le chiacchiere
compongano leggeri passatempi
senza un senso per forza compiuto.
Sì, si può fare tutto questo perché
in fondo lasciarsi andare è un modo
per vedere cose altrimenti nascoste.
Tra lo scill’ e cariddi
di due natiche sode,
di due seni rigogliosi
e di due anche avvolgenti
ribolle il gorgo
dolcemente infernale
del sesso.
Il golfo contiene
senza opprimere
l’inebriante larghezza
del mare aperto.
In questo settembre
che quasi è a metà
sento lenta la voglia
di un golfo d’amore.
Il bagnino quasi sempre non si bagna
e se gli chiedono canoe e lettini non si lagna,
presidia la spiaggia con occhio attento
e sa sempre cosa ci porterà il vento.
Se qualche barca oltrepassa le boe rosse
imbraccia il megafono come se niente fosse
per lanciare poche parole forti e chiare
tanto che quella riprende in fretta il mare.
Sa curare punture di meduse dispettose
sia nelle ore fresche che in quelle più afose,
consiglia senza insistenza qualche escursione
per scoprire le meraviglie della spiaggia di Sansone.
Il bagnino ha robusti riccioli neri
che nascondono per bene i suoi pensieri
sulle donne, sulla vita e sul domani,
che volano in fretta verso altri luoghi lontani.
Le parole devono
essere leggere
come la neve
che quando cade
ha paura
di far male.
Riesco ancora a sentire,
O così mi sembra,
Suoni di uccelli festosi
E il profumo di rosse rose.
Ci sono ancora al mio piccolo paese
donne anziane che, prima della festa,
girano tranquille con le gote accese
e i bigodini con veletta in testa.
E mi strappano un sorriso leggero
perché ignare del finto apparire
queste tiran dritto per il loro sentiero
robuste di storia, forza e sentire.
Piccoli segni da coltivare con cura
come i fiori gialli che nel verde dei prati
si mescolano all’erba senza paura
osservati dai ciliegi di fiori addobbati.
E’ primavera e questo è sicuro
anche quest’anno l’inverno è passato
ci aspetta il vento che come un tamburo
ci batte alle tempie un ritmo intonato.
Lasciarsi andare allo scorrer dei giorni
sapendo che questo non vuol dire scappare
ma godersi appieno tutti i contorni
di una vita che comunque ti lascia nuotare.
Piove un’acqua
che sa di nuvole stanche,
che la spingono fuori
quasi con rabbia.
In questa domenica
di sonno intenso
riprendo appena i pensieri:
non avresti neanche ottant’anni.
Verrà una primavera
anche questa volta
ad asciugare un inverno
che qualche segno ha lasciato.
Non siamo poi nè così grandi
nè così malvagi,
accontentiamoci di dare un senso
alla nostra normalità.
Lei fu siccome immobile…
C’è un fiume di dolore
che tracima da parole
digitali o d’inchiostro.
Troverà il suo alveo
sempre e comunque,
altrimenti è un casino.
Il ruscello va in un fiumiciattolo
che poi se ne va in un fiume
che per forza finisce in mare.
Altrimenti è un casino,
anche se un canoa leggera
accompagna l’alba.
Una magica lastra di vetro
una superfice liscia
metalizzata sul retro.
Lo specchio non inventa,
rimanda!
Ho distrattamente visto un nido
sull’albero di fronte alla mia casa,
che sta aspettando la primavera.
Su quello stesso albero
al quale, forse distrattamente,
avevo appeso una piccola
casetta di legno.
Ma un uccello che non conosco
ha pensato che invece delle pareti
della mia un pò finta casetta
era meglio, di certo, innalzare
un intreccio di erbe, rametti e libertà.
E ancora un pò assonnato
ho pensato che invece di appendere
casette già (pre) fabbricate
forse sia meglio offrire alberi.
A volte siamo due quasi sfere
che pur vicine si toccano poco,
nella loro pretesa perfezione.
Ieri sera, invece,
si alternavano perimetri
concavi e convessi
quasi a placare i nostri
bambini spaventati.
Poi ti ho vista partire
nella neve che imbiancava
la fine della notte.
Ho ricevuto con piacere immenso
una piccola foto in bianco e nero,
con due ragazzi che chissà cosa
pensavano sarebbero diventati.
L’ho mostrata orgogliosa
ai miei famigliari e ad alcuni amici,
raccontando che ti ho rivisto
dopo tanti anni.
E che, per ragioni di lavoro,
molto raramente ti incontro.
Ora ricevo un cartoncino
dove apprendo che hai scritto un libro.
E…me lo vuoi far sapere,
sono di nuovo orgogliosa
di conoscerti e di avere apprezzato
il tuo lavoro in passato.
E di credere che i ragazzi della panchina
hanno provato a vivere
cercando di non dimenticare
da dove sono venuti.
F.P. 27 nov. 05 ore 13,21
Questa è un’affettuosa mail di una mia amica di tantissimi anni fa, alla quale avevo mandato una foto scattata in una gita scolastica, alle medie. Quando l’ho ricevuta, prima ho tolto l’audio dal pollaio di Ballarò, poi ho spento tutto, preferendo la confusione del mio silenzio.
Il vento sa di aria e acqua
e spinge le vele e i pensieri.
E’ saggio ascoltarlo e seguirlo,
è stupido contrastarlo
con inutile e faticosa superbia.
*grazie Bertoli, per il titolo
A guèrd un èlber
davanti a cà me,
c’al tàca a perder al fòi.
Al vinen zò pian
saiza prèsia,
al girèn e al prèlen.
E po’ al caschèn inl’erba mòia
cl’an né piò verda
ma gnanc zala.
E alòra a pains
e a me dmand:
“Ma Lauro, induv’ela che te divers?”
Elba d’ottobre e birichina,
giochi col sole e con lo scirocco.
Come un’amante calda e viziata
ti dai, ma non del tutto,
ma non troppo.
Elba d’ottobre,
non più estate, non ancora inverno.
Regali un bagno incerto e bello,
chiacchiere d’aria e di vino,
una passeggiata al Capo
dove la terra finisce
e decolla il mare.
Elba d’ottobre
e di sole e di vento e di nuvole,
Elba birichina che fai il solletico
con la malinconia
tra l’estate che è finita
e l’inverno che non c’è ancora.
Nuvole e vele,
acqua e sale,
sole e sassi,
onde e vento.
Elementi conosciuti,
combinati e armonici,
nei colori e nei suoni,
nelle forme e nelle dimensioni.
Pioggia e sole,
caldo e freddo,
luci e ombre,
silenzio e rumore.
Un lusso conosciuto
e dimenticato da tempo,
una pace che ribolle
come il mare di libeccio.
Dallo scirocco al maestrale
Non c’è niente da inventare,
basta con occhi puliti guardare il mare,
quando lo scirocco lo tira piatto
e sonnecchia sornione come un gatto.
Non c’è niente da immaginare,
basta con orecchie attente ascoltare il mare
che a volte scalpita sotto il grecale
e le sue onde sono le note di un orchestrale.
Ma lo spettacolo maestoso lo accende il libeccio
che con nuvole e onde fa un magistrale intreccio,
sequenze di schiume e di rumori
e folate che portano della salsedine gli odori.
Piatto, mosso od agitato
calmo, frizzante o preoccupato.
perché anche l’animo dell’uomo ha i suoi gironi.
Rosa nuova di novembre
che buchi la piogge dei giorni scorsi.
Rosa bella di novembre
che ti fai baciare dal sole.
Un sole corto
che dipinge ombre lunghe,
un sole delicato
che ti culla e ti accarezza.
Rosa e sole,
pensieri e ipotesi,
ricordi e desideri,
pace costruita e ricercata.
Passi calmi e ben piantati
nei campi umidi e dell’infanzia,
piccoli chicchi di uva sopravvissuti
come regalo per una serenità rinnovata.
Un grappolo rigoglioso e pieno
lasciato lì in ottobre.
Un piccolo groviglio appassito
ritrovato a gennaio.
Per invecchiare
bisogna farsi dimenticare.
Ho sangue gitano nelle vene
per finta o per vero che sia,
ma l’andare mi da piacere
e se mi fermo è solo per un po’.
E dormo in una roulotte di fine estate
cullato da un’altalena di sole e di nubi
ed ancòro i ricordi a qualche serata
di chiacchiere pulite di fresco piacere.
Ci vuole classe, e competenza vera,
per tenere in piedi relazioni sottili,
intrecciando parole e bagni di sole
accompagnando leggeri il tempo che va.
Chi si allontana con fretta precoce
dai dispetti del vento
poi non gode l’esplosione del sole.
L’attesa non può toccare la fretta
perché si fa prendere la mano
dalla convinzione che poi passerà.
E quando davvero poi passa
l’attesa sorride senza arroganza
contenta di quello che ora c’è.
E quand’anche poi non passasse per niente
non si scoraggia l’attesa,
convinta che anche questo in fondo ci sta.
L’attesa costruisce e la fretta demolisce
in un caso spessori robusti si sommano
nell’altro soddisfazioni appannate si sottraggono.
Sapere aspettare, senza annegare di vuoto
attraversare i silenzi e le domande inquiete
convinti che alla fine una risposta poi c’è.
Ah le curve, che ironia!
Spesso accendono pensieri piccanti
di seni, di culi e di anche possenti.
E poi ci sono le curve leggere
degli anni che piegano la nostra vita
regalando alla forma un residuo di dignità.
Ma le curve che l’accidia scolpisce,
quelle che il rancore scalpella,
quelle curve sono brutte e cattive.
Mio padre è morto troppo presto
e mia madre è morta troppo male.
Padre e figlio, è naturale, duellano di frequente
non per cattiveria, o per noia o per la gente,
ma perché c’è chi cresce in esplosione
e chi piano piano invecchia e va verso la pensione.
Tra figlio e madre, in quanti l’hanno scritto!
c’è un filo rosa che tesse un ordito colorato e fitto
che incrocia mille complicità, speranze e sprazzi di futuro
e regala una coperta nella quale ti avvolgi, al sicuro.
Ma se il padre è costretto a partire in piena notte
non ti lascia il tempo di incollare le parole rotte
e rimane una forte e malinconica nostalgia
di un bicchiere insieme, in un pomeriggio di magia.
Ma se la madre vuol partire senza preavviso
ti rimane una macchia nera e tonda che ti buca il viso,
un dolore permanente e un rimorso atroce
che rosicchia piano piano gli occhi e la tua voce.
Quarant’anni con il mondo da nuotare
con un figlio che hai lasciato in alto mare,
quarant’anni con un lavoro serio e importante
ed un passo ogni giorno più pesante.
Inutili tentativi di scrivere
paura di doversi affondare.
Sigarette accese e subito spente
vino armonioso che piace
labbra morsicchiate piano.
Ma non è sgomento, non è nausea!
E’ dolcezza, triste dolcezza!
E’ la voglia e la consapevolezza
di dover continuare, di volerlo.
E’ la voglia che venga domani
per incominciare musiche nuove
anche con stonature, perchè no?
E’ voglia di vedere il tuo viso
accarezzare i tuoi biondi capelli
ascoltare la tua voce vera.
E’ tutto un collage frizzante
piacevole, caldo: BELLO!
Alberi nascosti da una nebbia insistente
nuvole che coprono un sole che vuole affacciarsi
pesci che muoiono in acque di detersivo e fango
uccelli che non riescono più a volare
in un cielo denso di fumi e di satelliti.
Gli scoiattoli, un tempo felici e gioiosi
ora li vedi annoiati e rattristati
perché non trovano più un albero sul quale saltare
perché quegli alberi, quei rami vengono tagliati
per consumare inutili e miseri fuochi.
Fiori stupendi, dai colori meravigliosi
vengono assurdamente strappati da mani vigliacche
e poi gettati in terra, ad appassire e marcire.
Funghi odorosi e rigogliosi vengono calpestati
invece che scoperti dolcemente tra il fogliame.
Alberi, sole, uccelli, scoiattoli, fiori, funghi
ma dove siete, ma dove state andando?
Come diventerete, come vi faranno diventare?
Che resterà dei giorni belli passati nel bosco
o a volare nel cielo azzurro di allora?
Alberi, sole, scoiattoli, uccelli, funghi, fiori
ma dove vi stanno portando, che vi stanno facendo?
Che senso ha il bosco, il cielo e l’acqua, il prato
se mancherete voi, se non ci saranno più fiori o sole
se non si sentiranno scoiattoli giocare o uccelli volare?
Tu non sei la figlia di tuo padre
tu non sei la ragazza di un uomo!
Tu sei due occhi, un viso
tanti cappelli, tanta dolcezza, una storia!
Tu sei un cuore, una mente
un insieme di vita, di suoni e colori!
E tu soffri in un trambusto di scoppi
lampi, urla, pianti, sgomento.
E tu devi scegliere, gli altri lo vogliono
e tu devi fare, decidere, dire, TU!
Sempre tu, solo tu, a te tutti guardano!
Il difficile non è la scelta, sono gli altri.
Un padre che ti vede sposata e sistemata
una madre che ti ricorda il suo impegno
perché per lei la vita con un uomo è impegno
un ragazzo che ti vede e ti sente sua.
E tu lì in mezzo, con le mani nei capelli!
Sei tu o il miscuglio delle definizioni degli altri?
Sei tu per dio o la figlia di….. la ragazza di….?
Come la senti ora l’ingiustizia della realtà
come la vivi la solitudine di chi vuol vivere!
Sei fuori dal cerchio, dal girotondo della felicità
ma quanta voglia hai di entrarci, quanta voglia!
Sai che lì dentro rideresti, correresti, vivresti
ma hai paura di poter anche cadere
di farti male e soprattutto di far male.
Ma a cosa ti servono le gambe
se non corri, non salti, non cammini?
Cosa ti servono gli occhi se non guardi
cosa ti serve la bocca se non parli?
Cosa ti servono, a cosa servono?
Tu sei sola perché vuoi vivere
perché reclami il diritto di essere felice
è ti gettano a piene mani angoscia
rimproveri, sgomento, paura, le stesse mani
che ti avrebbero gettato il riso, al matrimonio.
Non so che parole dirti, se esistono parole!
Non è impotenza, è la reale certezza
che tu soffri da cani, che stai da cani
che ti avvelena e ti incancrenisce questa indecisione
tu, sempre tu, in mezzo a due esigenze!
No per dio, non è un saggio di femminismo
è l’augurio più vero, più fantastico più festoso
perché se ne vada questa nebbia, questo freddo
perché tu possa camminare con i capelli scompigliati dal vento
su di una strada meno dura, meno pesante!
Voglio essere più vivo e meno ubriaco
più timone e meno rimorchio
più uomo e meno intrattenitore
più vero e meno trasparente.
Voglio essere io, non la somma meccanica
di quello che gli altri richiedono da me
voglio essere fino in fondo io e solamente io
non farmi filtrare dalle definizioni altrui.
Voglio essere più importante negli altri
e non sballottato dalle loro “esigenze” o realtà
non bloccato da “è un momento difficile”
oppure “vorrei ma non posso darti di più”.
Voglio essere chiaro e capire ogni pagina
il lavoro, la donna, gli amici, il vino
non sopporto più la paura di aver paura
o di non riuscire a dormire sapendo di dover pensare.
Voglio capire sì ma anche essere capito
voglio sentirlo questo sforzo negli altri
e far sì che i miei sentimenti non facciano di me è
un’ombretta sdegnosa del Missisippi.
Voglio essere più vivo e meno ubriaco
dividere il bere con gli altri dalla non solitudine
voglio rispolverare la parte di me che è viva
che è fenomenale, dolce, stupenda, vera!
Voglio dire basta alla non retorica retorica
voglio dire basta al “siamo tutti amici”
all’omertà di tante sere, di tanti momenti
ai sottili egoismi nascosti da vecchiaie comuni.
Voglio dire basta ai ricatti, alle gabbie scritte!
Non voglio soltanto saperle scrivere
le cose belle, vere e dolci per una donna
o le medicazioni ed i guai di ‘sta vita.
Voglio essere più vivo e meno ubriaco
con il coraggio di dire agli altri che ho bisogno
voglio cancellare dagli occhi l’orgoglio feroce
che dice: “quello che sono l’ho conquistato io”.
Voglio prenderla per mano la gente
correre cantare e bere assieme, ma con vivacità
non con teste appoggiate al muro, suole
occhi angosciati che fissano, soli, la fiamma del camino.
Voglio capire e far capire che sono in gamba
che ho delle cose da dare e da dire
che voglio venir fuori da una spirale violenta
fatta di permalosità, sensi di colpa e ingenerosità.
Voglio far diventare queste righe una realtà
voglio costruirle, non tenerle nascosto nel cassetto
e poi forse leggerle ad un amico, una sera,
che alla fine mi dica che anche per lui è così!
Ma perché por.. dio?
Perché il sole non scalda più
l’acqua non è più limpida
e le foglie sono gialle
e secche da far schifo?
Perché le nostre primavere
sono di pochi giorni
perché il freddo e la neve
raggelano con violenza
le nostre gemme di felicità?
E il vento…tace!
Non corre più tra i vigneti
di un settembre generoso e rosso
perché non scuote più
i grappoli di speranza?
Piccoli fuochi accendiamo
fuochi di poca sostanza.
Una vampata violenta, improvvisa
tanti sterpi secchi consumati
poi, alle spalle, il freddo!
Siam tornati ancora dopo un anno
qui in Soggiorno tutti insieme
facce nuove, facce conosciute
e noi qui sempre gli stessi.
Beviamo sempre tutti quanti
e di casini ne abbiamo tanti
ma abbiamo ancora tante cose
sì è vero siam gli stessi
ma sempre siam diversi.
Non vogliamo solamente vivere
di sogni o di passato
ma vogliamo continuare insieme
il discorso incominciato.
Noi non vendiamo verità
non commerciamo confessioni
vogliam vedere se si può
cominciare a stare insieme
con amore ed umiltà.
Quella prima volta coi cappelli
o coi fischietti in assemblea
e quel giorno a pranzo col pigiama
quanta gente ci ha visto strana.
Noi non vogliam essere pagliacci
perché è di moda portar stracci
cerchiamo di spazzare via
le parole e le espressioni
che ci danno ipocrisia.
Ci son stati tempi in cui la Ciccia
era rinchiusa in manicomio
stessa sorte riservata a Luppi
a un Gustavo o a un Gigi.
Qualcuno li ha portati fuori
pagando duro di persona
avete visto come sono:
dentro o fuori il manicomio
ve lo domandiamo a voi.
Certo non è facile mangiare
la minestra insieme a loro
prenderli per mano e andare insieme
tra la gente che ti guarda.
In questi giorni l’avete fatto
non per pietà o per compassione
ma ricordiamo bene che
da domani questa gente
ha bisogno ancora di te.
Ma non han bisogno solamente
di spazzole e bastoni
né di gente che d’intorno ride
delle loro situazioni.
E tacevate tutto questo
e dopo un “ciao” e una “buonanotte”
voi tornavate sorridenti
a guardare e a sparlare
con sorrisi indifferenti.
Può forse bastare un pomeriggio
sceneggiando una canzone
poi parlare insieme ore ed ore
di libertà ed emancipazione
per poi sentirsi rinnovate
con la certezza d’aver capito
senza più niente da imparare
tanto ormai è tutto chiaro
tutto a posto, già risolto.
Abbiam vissuto insieme venti giorni
ed il ricordo sarà bello.
Le ballate le canzoni e i giochi
ed i molti gavettoni
e qualche visita notturna,
un Luppi come direttore
tutti momenti intensi e belli
quasi come il saggio vino
che c’accompagna tante sere.
Ci troviamo ancora a salutarci
dopo un viaggio tra la gente
ed abbiam toccato e poi mangiato
un casino di esperienze.
A casa l’aria è più pesante
lì non ci siamo tutti quanti
può soffocare l’entusiasmo
ma non deve spazzar via
questo vivere la vita!
Vita assassina! Assurda ed insensata vita
come puoi permetterti di torturarmi
di farmi giostrare tra noia e disperazione?
Come, come puoi violentarmi continuamente
farmi ruzzolare lungo il pendio dell’insoddisfazione?
Colpe? Non esistono colpe a queste situazioni
a questi momenti di lambrusco e tristezza
a questi ricordi irrequieti ed ubriachi.
Vita assassina! Dov’è che vuoi portarmi?
A suonare il mandolino in Argentina
a far compagnia ai “clochard” di Parigi
a sostituirmi il sangue con il vino?
Devo, devo sapere cosa farò domani
devo dormire i miei sonni tranquillo
non venire a stuzzicarmi con i sogni
con i ripensamenti o i “potevo fare”!
Vita assassina! Quand’è che litigheremo?
Se da questa bottiglia o da questo inferno
Nascerà un giorno la forza di scioperare
Allora non mi troverai a marcare il cartellino
della fabbrica della vita, dove TU decidi.
Le mie bandiere saranno rosse di lambrusco
o di sangue che esce dalla tempia ferita
ed allora, solo allora canterò: “Sono libero!”
Folle poltiglia di pensieri
dove vagabondi nevrotica mente?
Guardi i treni partire
aspetti il tuo che non c’è.
Oh sì, su un treno salirai
ma solo per andare là dove
ce ne sarà un altro, uguale
che ti porterà ancora via.
Sei di passaggio su questa terra
e in fondo hai il diritto di essere folle
di farmi vagabondare come un folle!
La mia stanchezza è ferma vicino ad un vecchio stanco di camminare.
Questa stanchezza fisica, psicologica ed ubriaca
che ti si appiccica addosso come chi ti esige impegnato.
E le mie orecchie non vogliono più ascoltare parole fredde
non possono più sentire scandire slogan in “offerta speciale”
non possono sedersi a convitti dove ci si abbuffa
di convenienze, di egoismo, dove si bevono retoriche feroci.
Sono stanco, stanco come chi da quarant’anni lava i piatti.
La mia rabbia esplode come il fulmine nel temporale.
Forse perché è condizionata dal lambrusco notturno
svanisce in un attimo, come quella schiuma nel bicchiere.
E le labbra non sanno più raccontare favole o utopie.
Si aprono soltanto per ingannare me stesso e gli altri
per comprimere ermeticamente quel po’ di buono che mi resta
per negare la sensibilità, di appuntamenti mancati, le frustrazioni
per inventare “SCHIUSMI” usati o “venite a casa mia” impolverati.
La mia noia balbetta pigramente la stessa cantilena.
Divora monotonamente canzoni, discorsi, sbornie ed amori
cammina con passo pesante sulla strada dell’abitudine.
E gli occhi non sanno più guardare un bimbo che ride
o i ciliegi in fiore, o esplorare il bosco vicino a casa.
Che scherzo ‘sta vita, che commedia mal recitata!
Dalle emotività più assurde, più costruite, più epidermiche
ad una noia pesante atona: in un soffio di tempo.
La mia felicità si pone dolcemente sul fiore dell’allegria
gioca a nascondino con le farfalle e le margherite
salta nei campi con i grilli e i rozzi rospi.
E il naso, è grosso e annusa bene, mi sussurra pian piano
che non vuole più sentire la puzza dei falsi e dei benpensanti
che l’aria inquinata di conformismo ad arrivismo gli mette il raffreddore.
Allora gli do ascolto, corro ancora con farfalle e coccinelle
ma sul più bello, quando sto per arrivare al traguardo….. inizia a piovere!
E chi mi paga tutte le notti
passate a pensare ad una vita migliore
chi mi paga le disperazioni sofferte
le tensioni create da tanti ingiustizie?
E quando mettevo tutto me stesso sugli altri
quando soffrivo per la gente in carcere
in quei momenti chi era con me?
In quei momenti dove eravate?
E chi mi paga le notti che piangevo
pensando alla mia solitudine
pensando alla donna che non avevo
chi me le paga quelle sofferenze?
E voi, che pretendete da me
militanza, coerenza e impegno
dove eravate quando morivo
ucciso da tante sofferenze?
Quando chiedevo un tozzo di umanità
un po’ di solidarietà elemosinata
quando volevo e dovevo amare
voi, ma voi, dove eravate?
Vedi, vorrei scriverti una poesia
ma sono stanco, ho sonno.
E poi il vino, e queste serate
passate con gli amici di un tempo
a discutere, a cercare disperatamente
di ricostruire momenti andati
cancellati da un tempo
che se ne frega delle tu esigenze.
“Io non do mani soddisfazioni”
Ma che cosa può significare questo
sulla tua bocca, sulle tue labbra?
Cosa vuol dire se non dimostrare
che forse dici questo perché non ami
perché non sai ancora amare?
Quando si ama e si vuole bene
è una soddisfazione dare soddisfazioni.
Vedevi la neve, oggi?
Era poca, non ce n’era quasi più
e quel poco che c’era
era tutta sporcata dal fango.
Fammi capire ogni tanto
che per noi non è così
che il nostro sentimento non è sporcato
da orgoglio o rancori infantili
che per noi non è come per la neve.
Noi ci siamo ancora e non siamo sporchi
e non siamo finiti, porco giuda!
Fammi capire questo, se lo vuoi!
Ricorderò come i tuoi occhi neri
sapevano rompere l’imbarazzo del nulla
ricorderò la mia rabbia
di fronte ai tuoi silenzi.
E quei pomeriggi così…
oh se li ricorderò
come l’assurdità dei nostri incontri
come il sereno la tempesta
la gioia e la malinconia
l’amore e il quasi-odio
che sempre ci accompagnavano
a letto o sotto il sole.
Ricorderò cosa volevo dirti
quando ti stringevo forte forte
ricorderò cosa sapevi sussurrarmi
quando ti gettavi nelle mie braccia
quando ti accarezzavo i capelli
quando mi rimproveravi di non capirti.
E con me spiegarti le mie improvvise scontrosità
quasi per dimostrare, a chi e perché non sò
che potevo benissimo stare senza di te
quando invece poi ti amavo
quando avevo paura di trovarti diversa al mattino
dopo averti trovata stupenda la sera?
Ricorderò forse anche questi momenti
offuscati dal fumo e dalla stanchezza
che esce ora dalla mia pipa
con questa luce che l’abat jour
concentra sulla mia malinconica nostalgia
con questa luce che evidenzia la mia solitudine.
Questi momenti nei quali devo pensarti
per combattere l’evidenza che tu non ci sei
questi momenti dove vedo giostrare i giorni futuri
che saranno inevitabilmente di vino, noia e rabbia!
Ricorderò tutto, tanto e niente
ma per dio, potrò sempre e solo ricordare?
Mi ricordo quell’anno che è passato
e tutto quello che in fondo hai creato
dentro me, fuori di me su di me
tutto quello che ho idealizzato in te.
Mi ricordo i tuoi capelli ed il tuo viso
quante volte io e te abbiamo riso
la certezza (forse mia soltanto?)
che incontrarci ci piaceva davvero tanto.
Mi ricordo, e poco giuda se è vero
io e te, qualche cosa di sincero
mi ricordo che per te scrissi canzoni
ti dedicai discorsi furbi o da coglioni
ci scambiavamo lettere e telefonate
per parlare di tutto, e non erano cazzate!
Mi ricordo quando si litigava
quasi si scommetteva a chi prima gli passava
bastava sempre poco, un sorriso
per dimenticare tutto guardandoci in viso.
Mi ricordo, e porco giuda mi fa incazzare
tutto quello che ho dentro non potertelo più urlare.
Cos’è successo? Vorrei sentirti dire
come e perché è potuto finire
quello che anche se non chiaro o ben preciso
è sempre un insieme di cose che abbiamo diviso.
E anche adesso ti canto una canzone
con la certezza di comportarmi da coglione
ma che dovrei fare, forse il duro?
Non ne ho il fisico, questo è sicuro!
Ti ricordi poco giuda quante volte
rifiutavamo il pensiero che queste gioie ci fossero tolte?
Piove, senti?
Anche questa mattina pioveva
e pioveva quando eravamo vicini
quando ci scaldavamo ridendo
quando ci dicevamo che veramente è bello
essere a letto quando fuori piove.
E anche adesso piove…
piove, ma sono solo.
Piove, e ricordo le effusioni forse infantili
ma tanto sincere
e adesso perché non ricordare
la felicità vera di stamattina
vera come la sporca apatia
del pomeriggio sonnolento e strano?
Niente è successo: niente succederà.
La tua vita correrà veloce o lentamente
ma sempre lontano dalla mia
non passeremo più mattine dormendo assieme
ma questa mattina così è trascorsa.
I tuoi dubbi saranno solo tuoi
le mie rabbia solo mie.
Non mi hai regalato illusioni
nè impressioni o parole per belle canzoni
mi hai soltanto rafforzato la convinzione
che amare dev’essere stupendo!
Se cambia l’aria di sicuro per voi sarà diverso
non sarete più in prima fila a condizionare la nostra vita
vi rendiamo tutto quello che c’avete dato
una vita che altro non è se non tempo sprecato.
Siamo stanchi di essere presi per il culo
siamo stanchi di vederci inquadrare
non vogliamo che ci insegnate ad odiare
non vogliamo 12 mesi tutti uguali tutti scemi
Siamo stanchi del sangue dei compagni
siamo stanchi di assassini detti poliziotti
siamo stanchi di stringere i pugni e ingoiare
di vedere monopolizzate le nostre lotte.
Ci avete dato tutto quello che vi serviva
grazie FIAT e PIRELLI e TELEFUNKEN
una famiglia di gente che non sente e non parla
un albergo a ore che con ipocrisia si chiama casa.
Quello che c’avete dato non si può certo dire vita
è una serie di idiozie e compromessi
di affetti contorti mai chiariti mai sicuri
da risolvere con un bell’abito bianco.
Le promesse come sassi su di voi cadranno
le parole che spuntate è veleno per voi topi
ritornate nelle fogne e portate con voi tutto
queste scuole, queste caserme queste CHIESE.
Siamo stanchi di poter soltanto urlare
avanti così basta, è il momento di cambiare
La libertà non sarà più un prezzo da pagare
non ci resta che RIPRENDERCI LA VITA!
Sì, mi avete rotto!
Tu alias Franco Nero con le tue cazzate
tu che partorisci invidia e sputi rancori
o tu che sporchi di convenienza ogni cosa
e le tue squallide giustificazioni per scegliere ciò che ti conviene.
Fantasmi bianchi in un ambiente nero
marionette più o meno idiote o stupide
persone senza spina dorsale e lealtà
ossequiose verso chi più può decidere
Ed io….
Lì, agli occhi di tutti incasellato, tranquillo.
Ma come fate a non leggere nei miei occhi
il disgusto che mi fate, la rabbia che mi faccio
per non saper reagire e mandarvi al diavolo
per respirare la vostra stessa aria, aria di …merda.
Ciò che mi riempie di amarezza e……
è la certezza che il giorno del mio funerale
sarete in prima fila con lacrime e fiori
a sputarmi addosso le ultime ipocrisie
con frasi false, falsa ammirazione e marce rimembranze!
C’è chi muore in una piazza gridando “Libertà”
c’è chi muore sul lavoro per quei soldi che non ha
c’è chi muore in un letto sentendosi fregato
c’è chi muore su di un tappeto verde che non è certo un prato.
Morire di bar, forse ti sembrerà strano
morire in un biliardo o con le carte in mano
morire di bar forse ti sembrerà vigliacco
morire in sciocche discussioni con la testa in un sacco.
C’è chi muore ad ottant’anni sentendosi un bambino
c’è chi muore molto prima per non sentirsi più un cretino
c’è chi muore col rancore di non aver fatto carriera
c’è chi muore semplicemente nel fare venir sera.
Morire di bar, forse può sembrarti sbagliato
morire in un bicchiere cercando di affogare il passato
morire di bar, vorrei dirti che nonl’ho scelto io
ma non so se in fondo è vero, se lo sbaglio non è mio.
C’è chi muore a vent’anni schiacciato da una noia
ma mi ri bello ancora un pò nelle mani del mio boia
il mio boia che stasera è il biliardo mai diverso
il mio boia che domani sarà una partita che ho vinto o perso
Morire di bar forse per non sentirsi rompere i coglioni
là dentro ognuno sa dei cazzi suoi e non si fanno rivoluzioni
morire di bar e si lasciano le cose come stanno
lo sa bene il potere per questo tanti bar fanno!
Quando si è soli si fanno le cose più impensate
per esempio comperare una radio per trasmettere cazzate
si può scrivere una lettera con parole di ferro
meravigliandosi poi se ti dicono che eri freddo.
Ti è capitato quasi per caso
di non riuscire più a dire quello che senti
prima eri corretto, eri sempre preciso
ma la bilancia per le tue parole è rotta ormai.
Così ti trovi troppe volte a sperare una meta
per la quale disposto magari anche a pagare
ma almeno sapere perché al mattino apri gli occhi
sapere perché mangi, respiri o cammini.
Anche tu vivi le tue gioie
ma valgono poco se consumate per te soltanto
quasi ti sei convinto che sia normale
costruire persone per farti crederà amato.
I “FORSE” ti circondano, i dubbi ti fanno soffocare
un punto interrogativo è l’impressione che sai dare
un lavoro forse misero o soltanto meno peggio
tanta retorica, moralismi attuali sono il tuo male.
Verrà un giorno in cui pure per te
ci sarà un po’ di chiaro in mezzo a ‘sta tempesta
allora capirai la vita e cosa chiede
le andrai incontro a braccia aperte, o la rifiuterai.
Allora farai i conti nelle tue tasche
vedrai sei ti conviene andare dalla sua parte
dipende da quel po’ che ci troverai
c’è quel giorno nascerà il sole o se finirai.
Ecco il rosso cadere nel bicchiere
è strano vederlo spumeggiante
fa quasi piacere osservare la schiuma
che cala fino a scomparire.
Forse anch’io sono così
mi butto in un bicchiere di emozioni
e anche le mie gioie sono schiuma
e come schiuma sanno finire.
Adesso che niente si muove
è facile vedere l’ombra del tuo naso
sentire il tuo respiro stanco
o il tuo fiato che puzza di vino.
Non è una canzone questa, non è poesia.
Sono cose mie che è inutile spiegare.
Sappiate eletti, razionali e corretti
che mi fa rabbia sentir dire: “Ti capisco!”
Gioia bella gioia mia, questi sguardi son per te
e con loro sto rivivendo il tempo che andato è
e quei giorni in riva al mare, le serate a parlare
e i litigi partoriti per farti capire che c’ero.
Sai, ricordo il pomeriggio passato a dire barzellette
o la canzonetta che apriva le serate alla Stiva
era bello vederti sorridere mentre l’ascoltarvi
era bello ballare con te, chiacchierare e sentire il tuo respiro.
Ma sì, anche tu ricordi quel giorno a Gradara
tutti assieme a bere birra e a dire sbaggianate
e le risate scatenate per Marino ed i suoi tubi
“classe operaia sempre avanti, metalmeccanici sul pullman tre”.
E il giorno del ritorno mi sembrava di lasciare
una fetta del mio viaggio che sta vita mi fa fare
e la promessa che ci siamo fatti con un po’ di convinzione
“alle cinque ci pensiamo” alle cinque dormivamo.
Accidenti se me l’ero presa, credo fosse un venerdì sera
già pensavo di averti con me, e sarebbe stato bello
ma le canzoni di Francesco le compagne mie di noia
mi hanno fatto dimenticare, grazie anche al vino nero.
Come tutto, anche una sbornia coln suo tempo sa passare
ed è un po’ come risvegliarsi e trovarti controvoglia a pensare
ed i dubbi sono tanti, e le ansie e le paure
“No, non può aver ucciso una gioia e un angioletto”.
Le rabbia del giorno dopo, la canzone “Vorrei dirti”
le imprecazioni consumate perché non arriva posta
ma a volte ho pensato “Forse lei mi sta aspettando
è ammalata per davvero!” Quanti forse, quanto orgoglio!
Quella sera a mangiare pesce ha interrotto questo inferno
la paura di incontrarti la voglia di rivederti
i miei progetti d’ignorarti sono caduti al primo istante
quando tu mi hai abbracciato, tanto sono fatto così.
Viene l’ora di dormire, sono felice e ti scrivo
la canzone che è uscita dalle rabbia quotidiane
la scrittura è malandata causa l’alcol ed il sonno
ma i momenti sono veri come il bene che ti voglio.
E sì, tu a me sei tanto cara, le tua lettera san creare
una festa tanto grande che non mi importa di capire
perché mi basta sapere che pensi a me ubriaco o fannullone
a me che lotto e che lavoro, o che dormo e che mi annoio.
Per favore, non pensare di essere causa del mio male
perché il mio è un male antico che in fondo non ha cause
se non che sono nato e che devo continuare
perché il coraggio di fermarsi non si trova in una bottiglia ormai vuota.
È tardi, o forse è presto: ma no, è bene che chiuda
scusa se ti ripeto ancora che non sei causa del mio male
perché tu sei la mia gioia e una gioia non è tristezza
io sono un il tuo angioletto che quella telefonata non aspetta.
O forse mi piacerebbe sentirti dire che è successo
ma che senso ha dire questo, ma che cosa può cambiare?
No, non voglio che tu soffra, no, non voglio niente o tutto
passa il tempo, lo su bene, passa in fretta quando dormi.
Ma che ne vuoi sapere tu di una serata in pizzeria
alle 10 e mezza di sera di un sabato qualunque
ma che ne vuoi sapere tu di un cinema di paese
con un film vecchio di anni e tante poltrone vuote.
Certo, tu hai cose più importanti a cui pensare
non una canzone da 100 lire che un joue box ti propone
ma un duro esame e un ragazzo da amare
quanta pena però mi fa la mia povera ironia.
Ma che ne vuoi sapere tu del tempo che dedico a una Gioia.
Essere soli vuol dire uscir per strada
e far vedere agli altri che sei soddisfatto
vuol dire dimostrare ad ogni persona
che hai degli amici con cui passar le ore
Essere soli è il tuo comodino pieno
di lettere già lette e che rileggerai
è una fotografia tutta impolverata
o un libro con la dedica già invecchiata.
Essere soli significa la rabbia
che ti prende quando non arriva posta
significa scrivere lunghissime lettere
a gente che di te forse importa poco.
Essere soli è sentirsi diverso
in mezzo a gente che ride e che balla
è chiudersi in sé stesso per poi presentarsi
con l’inferno dentro e il riso sulle labbra.
Essere soli è passar le ore
a riguardare le fotografie
ad ascoltare un disco che già sai a memoria
aspettare che qualcuno di te cerchi.
Essere soli è svegliarsi di notte
aver sognato che stavi con lei
è accendere la luce e non trovare niente
se no la voglia di riaddormentarti.
Essere soli vuol dire andare al cinema
e vergognarti che con te non c’è nessuno
girare sotto la pioggia con le mani in tasca
sperando di trovare qualcuno da salutare.
Essere soli è scrivere canzoni
che a nessuno mai poi canterai
non sapere con chi bere una bottiglia
con chi dire che ne hai le palle piene.
Essere soli è alzarsi al mattino
andar a lavorare e tornare la sera
la solita doccia, la solita cena
e pensare che tra poco è già domani.
Vorrei dirti della rabbia che mi prende
quando al ritorno non trovo una tua lettera
vorrei dirti delle angosce che ho dentro
vorrei dirti delle mie monotonie.
Vorrei dirti che sei la mia gioia
sicuro di non dire bugie
vorrei dirti delle mie gioie improvvise
delle risate che riempion certe sere.
Vorrei dirti se ancora ricordi il mare
vorrei dirti se ancora ricordi i litigi
sempre uguali e sempre finiti
con un sorriso o con una risata.
Vorrei dirti dell’invidia che mi prende
di fronte a due felici e uniti
vorrei dirti della mia inutilità
delle ambizioni e delle mie utopie.
Vorrei dirti che se la mia gioia
e queste vero, non dico bugie
ma forse vorrei dirti troppe cose
scusa ma non dirò niente!
Quella che canto è la storia di un uomo
che a vent’anni si dice già stanco
quelle che dice sono cose già vecchie
ma che ripete perché sono le stesse.
Tutte le sere ritorna alla casa
chiude la porta e si lascia alle spalle
una serata al cinema o al bar
vuota o piena, ma sempre usata
una serata al cinema o al bar
vuota o piena, ma sempre usata.
Solita luce proprio lì a destra
solito uscio che porta in cucina
solito bicchiere di minerale
per annaffiare l’antico male.
È questo il momento fra tutti il più duro
quasi anche il muro gli mette paura
e la sua ombra lo fa sobbalzare
perché i suoi drammi gli vuole ricordare
e la sua ombra lo fa sobbalzare
perché i suoi drammi gli vuole ricordare.
La porta di camera si apre in silenzio
i vecchi dormono, ne hanno il diritto
quasi con rabbia si leva le scarpe
con incognita calma si metta pensare.
Soliti gesti che già fa da tempo
solite righe per la sua vita
le gioie e i pianti vuole ricordare
forse per quando si dovrà fermare
le gioie e i pianti vuole ricordare
forse per quando si dovrà fermare.
E in quegli istanti che sembrano anni
pensa alla donna che forse lo pensa
pensa a un rapporto che cresce nel buio
oppure a quando avrà passato il muro.
Tristi pensieri o forse impolverati
da una noia o da monotonie
“Però ho lottato, in fondo ho lavorato”
paiono scuse per tirare avanti.
“Però ho lottato, in fondo ho lavorato”
paiono scuse per tirar avanti!
Ho bisogno tu lo sai
di dire la pena che porto dentro
il ricordo di ieri sera
il sapore della tua morte.
Guardi il soffitto, accendi la luce
provi a leggere, a non pensare
e vuoi chiudere gli occhi
e non vuoi più capire
e vuoi chiudere gli occhi
e non vuoi più capire.
Il ricordo di antenne sole
e di lune nella notte
il vento che soffia forte
e la dolcezza del tuo calore.
Sono cose lontane ormai
sono cose che fanno soffrire, sai?
E partorisci rabbia e noia
e fai progetti di partire
e partorisci rabbia e noia
e fai progetti di partire.
Accanto a queste parole
c’è la canzone per te d’amore
sono chiodi che mi fan male
nostalgia di non so cosa.
O forse lo so per cosa
ma non lo voglio capire
perché è un peso troppo grosso
che non riesco più a portare
perché è un peso troppo grosso
che non riesco più a portare.
Ho sbagliato e mi faccio rabbia
per non sapere abbandonarti
però non ficcar la testa nella sabbia
cancellare tutto e dimenticarti.
Forse fra un’ora, fra un giorno o fra un mese
queste parole dimenticate avrò
perché scomparse al tuo venire
ma oggi le vivo: e tu mi fai soffrire
perché scomparse al tuo venire
ma oggi le vivo, e tu mi fai soffrire.
Mi regali noia e disperazione
ed è un prezzo troppo alto, sai
per una maglietta o per un quadro
per un viaggio un po’ lontano.
Non merito il egoismo, neanche la tua apatia
non per ambizione nè per vigliaccheria
non capisco perché mi fai pagare
tutto il bene che ti voglio dare
non capisco perché mi fai pagare
tutto il bene che ti voglio dare.
Mi sono trovato con la chitarra in mano
mi sono trovato a cantare piano
una canzone nata sul momento
e le cose dette le porte il vento.
Il vento della vita chi a sera
ti coinvolge nella nota atmosfera
di tristezza un po’ sottile e assai sofferta
con la porta dei miei dubbi troppo aperta.
I “forse” stan riempiendo il mio giorno
di certezze non ne ho più a me attorno
a volte sono ambiguo per paura
compromettersi in fin dei conti poi è dura.
Mi sono messo nei casini più impestati
fatti d’amore e rapporti disperati
con ragazze che in me hanno creduto
e alla cui salute un bicchiere mi sono bevuto.
Ho vissuto di amicizia spesso oscure
ho vissuto e contaminato le mie paure
di trovarmi tutto ad un tratto ad esser solo
come una nave che in burrasca ha perduto il molo.
Quante pagine di diario ho riempito
comperando la certezza di essere capito
per rifiutare poi in fondo il confronto
o per paura d’esser preso per un tonto.
Ho lasciato che il tempo decidesse
che di noia le mie cose poi sporcasse
quanti dubbi ancora in aria ho partorito
quanto caos, quante paure ho costruito.
Ho sbagliato e a voi giudici non do torto
chiedo solo di poter tagliare conto
e di dire con certezza, almeno adesso
che ho pagato e forse a caro prezzo.
Ho pagato per ogni dubbio non risolto
per quel po’ di anni che alla vita ho tolto
sto pagando oppure adesso, e pesante
con solitudine, noia e delusioni tante.
Sto pagando e forse non capite come
ma con il dubbi e le incertezze che la vita mi pone!
Quando mi trovo ad essere indeciso
persino se chiudere gli occhi o guardarti in viso.
Sto scontando un po’ alla volta i miei errori
ma non chiedo grazie, non voglio argenti o ori
dico solo che in fondo anch’io ho subito
la vita il suo gioco: e non ho finito.
Perché nella mia mente le ragazze stanno poco
passano in fretta poi se ne vanno come il fuoco
che ti lascia la nostalgia del suo calore
a me lascia la voglia di un grande amore.
E a vent’anni la mia donna io la cerco
come la voglia di uscire da questo sterco
e spero che qualcuno cerchi me
a qualcuno sto pensando, penso a te!
Certo non è allegria
trovarsi in camera studiare
dei libri davanti da sfogliare
mentre hai voglia di scrivere e cantare.
Chissà se è la noia della scuola
che mi crea dei pensieri strani
però forse non è del tutto sbagliato
che la tua rabbia sarà più forte domani.
La rabbia di un uomo che si stanca
di vivere come un burattino
mi addormento alla sera col timore
che troppo presto venga mattino.
Son cose che ho già detto tante volte
ripetute fino a farmi schifo
però forse non è ancora abbastanza
perché mi trovo per compagna la speranza.
Infatti, se speranza non avessi
dite voi: “mi trovereste qui a cantare?”
Io penso proprio di no,
mi troverei con una corda da legare.
In questo pomeriggio di primavera
sento il cielo che diventa scuro
mi sembra di essere lassù
di avere finalmente scavalcato il muro.
Nella vita di ognuno di noi
c’è un muro da scavalcare
di qua la vita, di là la morte
perché non ho la forza per passare?
Enigma che mi stai sporcando i giorni
che distruggi a poco poco la mia mente
mi riduci persino a sperare
che ‘sta vita possa poi cambiare.
Ma poi ti accorgi di essere stato un fesso
quello che dici è sempre lo stesso
poi ti accorgi di essere invecchiato
i tuoi sogni, le tue utopie ti hanno abbandonato.
Non bastan più le cene al Cacciatore
Dove ti senti quasi un attore
quando alzi il bicchiere o versi il vino
quando ti appoggi ubriaco al tavolino.
Non basta più nemmeno la tua amica
sei per lei soltanto dolore e fatica
d’altronde ti risulta pure vero
d’esser già morto nel suo pensiero.
Così pian piano cade tutto
così pian piano ti resta mentre
e speri ancora di trovare
la forza per quel muro scavalcare.
È inutile sul serio che mi illuda
in fin dei conti sono vecchio per davvero
un mattino mi alzerò col sole nero
e dirò incredulo: “È FINITA!”
Non sono si ricordi, ma a te l’ho sempre detto
che la vita è uno scherzo di cattivo gusto.
Certo lo so, certo è dura trovarsi a dire queste parole
in un frangente di incredulità e dolore
che la tua partenza mi ha regalato.
A volte mi sembra ironia, altre volte è pazzia
mentre i coriandoli volavano via
la tua vita fuggiva nella notte.
Forse sei stata felice, per me lo eri davvero
e forse è per questo che non ci sei più.
Forse è per questo che la vita non ha senso
forse è proprio per questo.
C’è chi porta la vita come un dito stretto
e mai può liberarsene: c’è a chi invece la vita gli sta bene addosso
e se la sente portar via nella notte.
Infatti che l’ha portata via quella sera
ed era finito il carnevale, ed anche la tua vita
è così finita, però è finita male, però è finita male.
Spero che tu non me ne voglia se ora canto lo squallore
che questa notizia mi ha portato: squallore e dolore.
Quello che è strano è che gli altri non capiscono
ciò che per me è il dolore, ciò che sempre sarà rancore.
Rancore verso chi, senza nome nè diritto
ti ha preso per portarti non so dove,
per portarti non sono dove.
Quello che e certo è che i il tuo biglietto non vale per il ritorno
è un viaggio di andata dal quale non si torna più.
L’ho imparato il giorno dopo, l’amica del tempo passato me l’ha detto.
Lo sai, non si credevo? Ma poi ti ho vista su di un letto.
Era un letto di ferro, era freddo, era spoglio, ed era senza coperte.
Soltanto un lenzuolo bianco copriva quello che un giorno era il tuo corpo
le palpebre chiuse coprivano quelli che erano i tuoi occhi
coprivano i tuoi occhi grandi.
Ho voluto parlarti, per un attimo ho voluto sfidare
chi, e senza diritto, ti ha voluto rubare la vita.
Certo il più forte e lui, certo il più forte è il vuoto della vita
quel vuoto per il quale ora non ti posso più guardare.
Però posso sempre immaginarti, posso sempre pensarti,
ma è un colloquio che non mi soddisfa:
certo Gloria, è un colloquio che non mi soddisfa.
Infatti quando ti penso o ti guardo sento un peso che mi opprime.
È il vuoto della vita che neanche mi lascia morire.
Di certo non mi importa se prima avevi
importanza nei miei pensieri: importanza o no.
Ciò che vivo ora è proprio che mi manchi.
E queste cose non hanno colore né musica
e queste cose non hanno musica nè colore.
Quello che ora canto è la fine di una vita
che a 16 anni è fuggita e non so perché.
Quello che ora canto è soltanto l’amarezza.
L’amarezza di capire che un’altra volta
non ci sono più maschere.
E la vita non ha senso,
e tu me l’ha dimostrato
e porca miseria, dimmi: dove ti hanno portato?
E ogni giorno ritorno, e apro la porta,
la casa è più stretta e sempre più vuota,
ogni giorno è uguale è sempre lo stesso,
ogni giorno io sono sempre più vecchio.
Ma tu cara amica non puoi capire
cosa vuol dire avere paura
di continuare o di respirare,
di alzare gli occhi e poi guardare.
Che bel maglioncino, che belle scarpine
che bella camicia, che bella sottana
tutta tirata per la grande festa
tutta già pronta per essere guardata.
Io non vi capisco, ma a voi chi siete
che vi guardate e vi compiacente
del bel vestito o della collana
della pettinatura o della sottana.
Per me è diverso, senza modestia
per me la vita non è più una festa
per me è la noia è la paura
di capire che è sempre ogni giorno più dura.
Che bel maglioncino…..
Fuori andata al night, voi andate a ballare
voi bevete il whisky, a me resta il vino
quello mi è chiaro e lo tengo vicino
quello mi ascolta, è il mio vero amico.
Tu non puoi capire cosa vuol dire
vedere andar via le persone care
vederle rinnegare quelle promesse
per chi è ben vestito o fa bella figura.
Che bel maglioncino…..
Tu sei un pezzente ed il gioco è chiaro
chi sgarra è un fesso e deve pagare
tu non vesti bene, non sei pettinato
e resta da solo, ti abbiamo fregato.
Non serve spiegare, non serve parlare
con chi ha imparato solo atradire
io resto un pezzente e bevo il mio vino
voi andate avanti con il vestito nuovo.
Che bel maglioncino…..
Il bel maglioncino io non me lo metto
e la cravatta è la ha nel cassetto
le scarpine a punta non mi stanno bene
a quella festa andateci voi.
Ma che strana festa, che strana gente
per la quale il mondo è finito lì
con il tuo ragazzo, con lui vicino
anche tua madre non esiste più.
Che bel maglioncino…..
Tutti gli ideali, tutte le promesse
le cose dette per farti grande
sono già morte le ha sepolto il whisky
o il bel vestito, oppure lui.
E così che di giorno in giorno
vedi la gente andare via
e tu resto incredulo, tu non capisci
cos’hai fatto di male per essere vivo.
Che bel maglioncino…..
È tutto un contrasto, tutta una pazzia
e poi queste cose si fanno sentire
e il corpo è stanco e la mente già usata
da questi pensieri che l’han logorata.
Ed è per questo che ti ritrovi
coi tuoi ricordi annegati nel vino
e il bicchiere è vuoto, e riempilo ancora
ma questo gioco quanto tarda finire!
Che bel maglioncino…..
No, non è il gusto d’esser diverso
non è nemmeno la voglia di essere
è solamente la noia dei giorni
che ti fa bere o ti fa cadere.
E questa storia è già finita
ma tutti i giorni la senti pesare
la bottiglia è pronta, lei non tradisce
e la tua fine quella sarà.
Che bel maglioncino, che belle scarpine
che bella camicia, che bella sottana
tu sei già pronta per la grande festa
io sono già pronto per perdere la testa!
Son partito con l’idea di lasciare
il vecchio paese, le vecchie case sporche di noia,
son partito con la speranza di trovare
una via nuova per quel paese poter lasciare.
Sono arrivato ad un paese dove c’è posto
per ogni idea, per ogni tua scelta di vita,
dove in una piazza, con la testa fra le mani
puoi star là a cercar la verità.
Dove in un prato dove c’è tanta altra gente,
una chitarra e tanta pace, puoi pensare
come sia inutile continuare a vivere là
alla ricerca della solita verità.
Son arrivato in quel paese che era sera
ma ho veduto la vita andare avanti
anche con droga,anche con vino se volete
però la pace, l’amore è in quel paese.
I quel paese, in quella piazza, in quel prato
con la mente, con i pensieri sono arrivato
a trovare quella pace e quell’amore
che in quel posto posso sempre, solo, sognare.
Son partito da quel paese che pioveva
ringraziando il cielo per quella pioggia
così le lacrime che cadevano dal mio cuore
non si vedevano e scorrevano così in pace.
Ho girato, dormito fuori, avuto freddo
però nel cuore c’era la voglia d’arrivare
in un paese dove ancora ci sia posto
per amare e in silenzio poter pensare.
Sono arrivato in un paese dove c’è un fiume
che passa lento e si porta via i tuoi pensieri
in quell’acqua così triste, così amica
puoi lasciare andare al vento i tuoi ricordi.
In quelle sere dove c’è solo una chitarra
ma tanta gente che è lì intorno ad ascoltare
tu con calma e con amore puoi pensare
in che modo la tua vita può cambiare.
In quelle sere dove i tuoi pensieri van veloci
verso terre piene solo di pace e amore
tu ti accorgi che così non può continuare
perché sei stanco, troppo stanco d’aspettare.
In quelle sere bagnate dal vino e dai ricordi
ti rendi conto che è l’ora dio partire
verso un mondo più sincero e molto più vero
dove c’è un po’ di posto anche per te.
In quelle sere piene di vita e di pace
tu ti accorgi che è l’ora di lasciare
le vecchie case, il vecchio paese, le vecchie persone
che è l’ora finalmente di partire.
Son partito, sono arrivato ma adesso è l’ora
di lasciare le chitarre e questa pace
perché è il momento di tornare
verso un mondo che per me è sempre, solo, morte.
Son tornato e ho visto le solite facce
dalla noia e dalle creme consumate
dai sogni di blue jeans e di serate
quelle facce sempre ferme, sempre uguali.
Ho girato per il paese e ho trovato
le vecchie strade che piangevano di noia
le ragnatele sui pensieri della gente
e ho pensato a quei paesi così lontani.
Son tornato e ho pensato a quelle sere
quando dicevo che era l’ora di partire
quando credevo di trovare quella forza
per partir e non ritornar mai più.
Son tornato e ho visto che son solo
e la forza, l’illusione m’han lasciato
e mi mancan le chitarre e le persone
che stan suonando in quei paesi così lontani.
Anche con i riti si fanno relazioni
che non sono tangibili
ma che danno buoni risultati.
Ciò che sembra inutile
un senso comunque ce l’ha:
scovarlo e dargli valore
è un arte.
Andare tranquilli
Da un’altra parte
Ritrovando sereni
I ritmi del tempo
Annunciati
Non dal lavoro
O dagli impegni
Disegno un segmento,
ne traccio un altro.
Ma due segmenti
non sono una retta.
Però qualsiasi retta,
se abbastanza spessa,
passa per tre punti non in linea.
Un’auto slitta
sul ghiaccio.
Un autista ostaggio
del mezzo e del suolo.
Dietro alla curva
un ostacolo improvviso.
Le mani stringono il volante
senza schiacciarlo.
E il corpo, pur allertato
mantiene la sua elasticità.
Una temperatura costante
d’estate e d’inverno
per nascondere
i capricci e gli sbalzi d’umore
della tecnologia.
Una selva oscura
di numeri contorti e spinosi.
Una lanterna sapiente
di un controller paziente
li illumina di senso
Un cameriere
veloce ma non di corsa,
che all’andata
porta un piatto con eleganza
e al ritorno
sparecchia un tavolo
con discrezione
Ciò che serve
qui ed ora,
non ciò che é stato detto
l’altro ieri, lá
Un sogno
vestito di possibilitá,
una speranza
spinta dalla volontá.
Una molla.
Robuste radici
di un albero,
tradizione
che si rinnova.
Una colla.
Linee che tracciano percorsi,
numeri che misurano discorsi.
Un’idea oppure un’esigenza
che si dipana.