Caro amico ti scrivo…

Questa è la lettera che una persona che conosco aveva cominciato a scrivere tempo fa per pubblicarla nel suo blog. Poi non l'ha mai finita ma, leggendo il mio articolo “La solitudine dei piccoli” le è tornata in mente e me l’ha inviata.
Ho cercato di entrare piano piano nel computer di questa persona, non solo per rispetto, ma per quella pietas che non ce n’è mai abbastanza.
Questa persona non è un’amica vera e propria, è venuta a qualche presentazione dei miei libri, abbiamo passato un piacevole pomeriggio sulle colline bolognesi a parlare di libri (anche lei ne ha uno nel cassetto, che ho trovato molto bello) e a bere del buon vino.
Però è una persona che tocca corde che conosco e che trovo molto belle. Addirittura, se non sono cafone, anche molto utili.
Per questo le ho chiesto se le andava che la pubblicassi sul mio sito e sul mio profilo FB, perché parlarne e farsi aiutare è fondamentale, ne sono convinto e non demordo.
Perché situazioni di questo tipo, che non emergono dalle fredde analisi di PIL e spread, coinvolgono anche persone ad elevata scolarità e cultura, come in questo caso.
Ecco la lettera – manifesto:

E' da molti giorni che vorrei scrivere questa lettera ma non è facile trovare le parole e le parole giuste per farlo. Non è facile perché vorrei parlare di depressione e suicidio e questi, si sa, sono argomenti tabù.
Io e la mia famiglia è quattro anni che lottiamo con la disoccupazione, la
precarietà, i contratti a progetto, difficoltà varie che si inanellano a
catena in un susseguirsi di prove dure, durissime. Il tutto è costantemente "condito" da eventi di ordinaria esistenza: lutti, problemi di salute, assoluta provvisorietà di ogni cosa, assenza di punti di riferimento certi. Quindi so bene di cosa parlo, da due anni combatto con disturbi da attacchi di panico e solo chi ne soffre, o ne ha sofferto, può capire come la qualità della vita si abbassi fino a precipitare. E' una lotta continua e a tratti estenuante con la vita, il disagio estremo e la capacità di tenuta del nostro equilibrio psicofisico ma, quello che vorrei comunicare, è che si può fare. Non è una passeggiata e nemmeno un'arrampicata, è qualcosa che assomiglia all'inferno ma si può fare: si può strappare un equilibrio e riuscire ad andare avanti, non con serenità ma si può proseguire.
C'è un'unica condizione, apparentemente o, a parole, semplice: farsi aiutare.
Farsi aiutare significa prima di tutto riconoscere che se ne ha la necessità e che, soprattutto, farlo non è una cosa di cui vergognarsi. La punizione della vergogna è per chi fa del male consapevolmente, per chi ruba, chi uccide e non per chi soffre, per chi perde il lavoro, la casa o entrambi, non è per chi ha fallito. I termini "depressione" e "panico" sono stati così abusati al punto che hanno quasi perso i loro significati originali. La depressione è una malattia, una malattia gravissima che può colpire per ragioni diverse e imprevedibili, che non hanno una scala universale di valori, può colpire e basta, come una qualsiasi altra malattia fisica. E' esclusivamente perché ci si ammala e, come tutte le altre patologie, non ci sono colpe. Succede.
Chiedere aiuto, in primo luogo agli amici e alla famiglia, significa, oltre che prendere consapevolezza del proprio stato di salute, accendere una vigilanza sociale, una cura particolare e attivare così una catena di solidarietà che prenderà tante direzioni. Qualcuno si attiverà per cercare un lavoro, qualcun altro per arginare le spese quotidiane, arrivano le cose più strabilianti e commoventi dalle persone che ci vogliono bene o che anche solo vogliono essere solidali, che credono nella partecipazione.
Io vorrei parlare di questo, far riflettere e farmi aiutare a riflettere sul motivo per cui, in seguito ad un'infezione gastrointestinale o ad un ascesso andiamo dal medico, dal dentista, gli parliamo, ci facciamo prescrivere gli antibiotici, seguiamo la cura, la guarigione. Perché per tutto il resto no? Qual è la vergogna? Il cervello non è sempre parte del nostro corpo, può anche lui, come tutto il resto andare in tilt?
La domanda è retorica ma, chissà perché, non ce ne prendiamo cura. Quando si
sta così male, quel male che ci impedisce di dormire la notte, di svegliarsi al mattino, quel cubetto di porfido che pesa sul cuore, sullo stomaco, che si ancora nella gola, quando si pensa che ogni cosa sia solo vana e insopportabile, quando niente, assolutamente niente ci fa sorridere e, se succede, ci si sente subito in difetto, quando, quello che si finisce per essere, è solo quello che si sente.
Ecco quando finiamo per essere solo quel male bisogna dirlo.
Dire, fare, baciare, lettera, testamento. quando dire è comunicare, fare è
muoversi verso l'altro, baciare è chiedere amore, aiuto, lettera è raccontarlo a tutti perché anche gli altri non si sentano più soli e testamento perchè si lasci qualcosa, dopo la nostra esperienza, che sia documentazione, archivio utile "a futura memoria"

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