Le donne e il lavoro è un tema intrigante e rischioso.
Il libro di Luisa Pogliana, che ho il piacere di conoscere e che ha fatto un robusto lavoro di editing de “L’educazione sentimentale del manager”, ha il pregio di proporre testimonianze dirette, senza la pretesa di definire modelli rigidi.
Troviamo donne che interpretano il lavoro non solamente in chiave strumentale, ma di crescita personale e professionale, senza la compulsione di fare carriera ad ogni costo.
Ciò non toglie che incontrino tante difficoltà in azienda perché “affermarsi come donne vuol dire essere brave, ma competere con gli uomini vuol dire essere alla loro altezza, vissuta come superiore”.
Attraverso la sapiente lanterna dell’autrice, che connette ed espande con rispetto le testimonianze delle donne intervistate, si ha la forte impressione che l’occhio femminile permetta di cogliere più elementi creativi nel lavoro manageriale, rispetto alla fredda lettura di schemi e matrici che spesso lo caratterizzano.
Il libro non nasconde le incoerenze e le debolezze delle donne in azienda, perché è “inevitabile nutrirsi delle bacche tossiche che la giungla offre ogni giorno”.
Quello che mi ha colpito è che nei racconti delle donne non si trova tracce di lamentazioni o recriminazioni, quasi che proprio non ci tengano a configurarsi come vittime.
“Perché un gruppo omogeneo (di uomini) che si è composto per cooptazione dovrebbe introdurre al suo interno il gene della diversità?”, si chiede verso la fine Luisa.
Perché se proviamo ad uscire dalle regole, lasciando briglia sciolta alla diversità, anche noi manager maschi potremo avvicinarci a nuovi punti di vista che ci renderebbero meno rigidi e meno obbligati a recitare copioni preconfezionati e limitanti.
E’ una sfida che, da uno a mille, dobbiamo accettare assumendoci la responsabilità individuale di muoverci anche in contesti avversi, senza scuse, perché è vero: “il destino non è che l’ultimo nome che diamo al nostro inconscio”.
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