Non conoscevo questo autore e il mio amico Roberto, durante una delle nostre rare ma preziose camminate per le colline, me lo ha consigliato.
E ho capito perché: Franco Arminio, paesologo, non scrive come un cronista o come un antropologo. No, scrive (ed è) da poeta, invitandoci ad “uscire di casa per leggere il mondo, tornare a casa per scriverlo”.
Ed il mondo che gli piace è quello lontano dalla confusione, quello dei paesi, quei luoghi dai quali forse si può tentare di ricostruire questo nostro bellissimo ma maledetto Paese.
Raccontare i paesi, perché “premiare chi rimane è una scelta che aiuta anche chi va via, perché così ha un luogo in cui tornare”.
Arminio ci esorta all’infiammazione della residenza, in un difficile spostamento tra intimità e distanza, cercando sempre di “dire quello che vediamo, assai più di quello che pensiamo”.
E da un tizio così non poteva mancare una randellata su internet: “la modernità è finita perché la rete in un certo senso ha sancito la fine di spazio e tempo, i pilastri su cui la modernità ha eretto i suoi edifici materiali e immateriali…più parliamo e più ci isoliamo, crivellati da questa artiglieria mediatica… è la realtà che deve sgomitare per trovare uno spazio nella foresta del virtuale… Scrivere in rete non è molto diverso che andare davanti a una tomba e parlare al morto. L’unica differenza è che lì si parla a un morto solo e in rete siamo tanti. Ogni profilo è il forno crematoio in cui diamo alle fiamme l’apparenza della nostra vita… In principio era il verbo, e il verbo è il segno della fine: la rete è il nostro diluvio universale, una pioggia incessante di parole”.
Non farci imbrigliare dalla rete, perché l’Italia interna ha ancora molta terra, ci suggerisce l’autore. E ci invita a concentrarci, con passione ma senza vanità, ai tanti piccoli dettagli, volendo bene al paesaggio inoperoso dei calanchi come ai magnifici e ben curati borghi che popolano la nostra terra.
Seguendo Arminio nel suo peregrinare per l’Italia interna, ci convinciamo che i luoghi, come le persone, possono essere attraversati ma mai raggiunti, che i paesi sanno unire gli uomini, ma anche lasciare che ciascuno interpreti la vita a modo suo.
Più che puntare alla crescita, forse dovremmo conclamare “l’anno dell’attenzione” per ridare valore, in modo dinamico, alle nostre radici.
Senza l’arroganza di avere una soluzione “… forse bisogna proprio uscire dall’ottica della soluzione”, ma con umiltà ed ascolto, perché se tutti hanno diritto di parola, bè, c’è anche “un dovere del silenzio”, condizione indispensabile per spegnere gli inutili rumori invadenti e ritrovare le cose che valgono.
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