Diverse persone mi hanno chiesto, nei giorni scorsi, perché non scrivessi niente sui social riguardo il referendum costituzionale.
La ragione è molto semplice: sono stato lontano da quella gazzarra perché è la “summa” di tutte le bieche abitudine di (non) comunicazione.
Nessun spazio al merito, clima da stadio, tutti che parlano (o scrivono) non per ascoltare ma solo per ribattere con la battuta. Che poi questa battuta sia furba, dotta o semplicemente scontata nulla cambia.
Da tanti decenni la politica, per colpa dei talk show e di chi li guarda, è diventata una caciara impresentabile, il tutto aggravato dal fatto che internet ha dato la parola a tutti.
E fin qui niente male, forse. Il guaio è che tutti hanno la parola senza filtro, sia che si tratti di un piatto di bucatini all’amatriciana che si sta mangiando o di altre amenità. Senza filtro tutto arriva nella cloaca della rete, che tristezza.
Sono stato alla larga dal referendum per l’insopportabile prevedibilità delle due fazioni. E per il fatto stesso che affrontare per fazioni un tema che dovrebbe essere nobile è di per sé deprimente.
Mi sono silenziato perché ritengo che l’oggetto del referendum sia una delle ultime priorità che questo Paese dovrebbe implorare venissero affrontate con chiarezza e tempestività.
Io non la bevo che se vinceva il SI ci sarebbe stata una pericolosa deriva autoritaria, tipo Sudamerica anni settanta.
E non bevo nemmeno la mistura di chi diceva che, vincendo il SI, di colpo tante cose si sarebbero sistemate e la modernità avrebbe accarezzato l’Italia.
E’ tutto più complesso.
Da decenni siamo piombati in una decadenza che è economica ma anche culturale, con il risultato che i livelli di speranza sono ridotti al lumicino. E la speranza rimane l’unico antidoto contro una vita intrisa di scoramento e sfiducia. Peter Hanke intitolò un suo libro “Infelicità senza desideri”, una sintesi che trovo perfetta.
La nostra anima e il nostro cervello hanno bisogno di speranza come dell’aria che respiriamo. Il fatto che molti giovani non credono più che sia possibile avere un lavoro che permetta loro di pianificare una vita (matrimonio, acquisto della casa…) ha generato comportamenti e atteggiamenti che sono sotto gli occhi di tutto, non liquidabili con battute come “bamboccioni” o “chossy”.
E’ un dato di fatto innegabile che l’ottanta per cento dei giovani ha detto No, non credo alle riforme costituzionali, quanto alla situazione che stanno vivendo.
Diversi neuro scienziati portano evidenze in base alle quali un modo di vivere senza speranza procura una minore produzione di serotonina e dopamina, neurotrasmettitori indispensabili per il nostro benessere.
Per non dire del lato psicologico e di quanto la speranza di poter arrivare ad una certa meta sia una leva motivazionale molto potente.
E la speranza, come le emozioni, è contagiosa.
Quindi, vedere torme di profili facebook, addirittura linkedin, infervorarsi con una superficialità imbarazzante su temi così profondi, mi imbarazzava e mi ha indotto al silenzio.
Ciò detto, il 4 dicembre sono andato a votare ed ho votato SI.
Non mi piace la modalità comunicativa e relazionale di Renzi, invece di mega guru della comunicazione credo avrebbe più bisogno di un coach o di un counselor che lo supportasse nella gestione di un ruolo dannatamente complesso, immagino, facendo le proporzioni tra il mio e il suo.
Non mi piace la sua incapacità di affrontare con realismo le difficoltà, semplificando troppo le questioni.
Non mi piace che dica sempre che viene dagli scout, perché l’etica si comunica con i comportamenti e non con le parole.
Ma mi piacciono ancora meno le facce di politici che da quarant’anni hanno ricoperto tanti posti di potere e non sentono nemmeno la vergogna per il fatto che un po’ di responsabilità su questa situazione l’abbiano anche loro.
Ne ha scritto magistralmente Michele Serra, ne L’amaca del 12 dicembre scorso, parlando del “notabilato politico al gran completo che recupera tutto il suo vigore primo – repubblicano, con le decine di delegazioni che salgono al Colle e poi leggono contente il loro foglietto al telegiornale”.
Riti tristi che sanno di acqua stagnante, di persone che del gattopardo se ne fanno un baffo. So per certo che da lì non verrà niente di buono, perché chi non ha cavato un ragno da un buco in mezzo secolo mica può improvvisamente diventare uno statista di serie A.
Avrebbe fatto bene Renzi a non infilarsi in quel tunnel con arroganza solitaria, ma ormai la frittata è fatta. Forse, come spesso accade, anche questo evento accelera un’agonia che non possiamo più affrontare con accanimento terapeutico.
La distanza tra Paese reale e classe politica è abissale, i partiti sono aggregazioni strumentali privi di una qualsiasi visione, per non dire ideale. Allora tanto vale farla corta, andare a votare subito: basta trasporre la legge elettorale della Camera al Senato. Studiando però meglio la Costituzione, per capire, una volta per tutte, che il Presidente del Consiglio non lo elegge il Popolo, ma il Parlamento. Quindi, chi si lamenta che da tanto tempo non si va a votare, sia preciso: è il Parlamento, i senatori e i deputati, a non essere legittimati, non il Premier.
Accetteremo la vittoria dei 5 Stelle e vedremo come, alla prova del governare, reagirà quel movimento.
Dopo di che, probabilmente, ci sveglieremo con il mal di testa, come dopo una brutta sbornia, e capiremo che dobbiamo stare più attenti a ciò che mangiamo e che beviamo.
In un instant book del 2013 (La PMI del XXI Secolo – uno sguardo affettuoso sulla piccola impresa, Blonk editore), proponevo provocatoriamente un transitorio ritorno alle corporazioni. Se gli attuali partiti non sono più rappresentativi del popolo, allora meglio una rappresentanza statistica: tanti operai, tanti impiegati, tanti medici, tanti insegnanti, tanti musicisti e così via. Una mia cara amica addirittura dice che potremmo sorteggiare le diverse categorie.
Comunque, capiremo che le castagne dal fuoco ce le dobbiamo togliere da soli e non aspettare qualche messia che, dalla rete o da chissà dove, risolva i nostri problemi con la bacchetta magica.
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