LE NON COSE (come abbiamo smesso di vivere il reale)
Già il fatto che il filosofo Byung – Chul Han fosse tedesco-coreano me lo rese simpatico: quando poi lessi “La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite” mi convinsi che i suoi libri andavano letti.
In questo ultimo libro argomenta con profondità come l’ordine digitale metta la parola fine all’epoca della verità e inauguri la società post fattuale dell’informazione.
Oggigiorno, è impossibile indugiare perché guardare senza secondi fini richiede uno sguardo lungo e lento. Uno sguardo impossibile laddove le informazioni, spesso superficiali, ci rincorrono e ci invadono. Oppure siamo noi che ci caliamo nell’infosfera per toccare mille cose senza approfondirne nemmeno una, che salviamo quantità immani di fotografie “senza far risuonare i ricordi”.
Attraverso le nuove protesi tecnologiche, che ci trasformano dall’homo faber all’homo ludens, ci chiudiamo in una bolla con l’idea di essere nel mondo, mentre invece ci ritiriamo ed escludiamo l’Altro.
Pier Luigi Celli, all’ultimo Congresso AIDP, ci ha esortato a conversare, non a comunicare. E aveva ragione, essere connessi non significa essere in compagnia: anzi. Scrivendo messaggi di testo facciamo scomparire l’Altro in quanto “voce” e ci lasciamo invadere (e invadiamo) da un’ipercomunicazione che livella e categorizza tutto, influenzandoci e distraendoci, confondendo l’informazione con la conoscenza.
Così, ci avverte Byung – Chul Han, ci illudiamo di poter raggiungere tutti e di essere raggiungibili sempre, ignorando che questo significa servitù. Con gli smartphone e le altre diavolerie non possiamo più negarci né alle cose né alle persone ma costruiamo legami che non ci fanno fare nessuna esperienza. Entriamo in un circolo perverso che ci dà l’illusione di appagare i nostri bisogni, mentre siamo sempre più inconsapevolmente sottomessi.
Sottomessi e vittime di questi oggetti che ci rendono smisuratamente narcisistici e autistici, in un gorgo nel quale finiamo di percepire soprattutto noi stessi, distruggendo l’empatia.
La digitalizzazione ha anche l’effetto negativo di sottrarci al silenzio. L’altra sera sono stato invitato a cena da una coppia di amici e si rifletteva sull’importanza della noia e del vuoto, di lasciare che i pensieri vaghino senza l’immediata attribuzione di senso e significato.
Sì, perché nel baccano comunicativo digitale “nessuno sta in ascolto, ciascuno produce se stesso. Non conosciamo più quel sacro tacere che ci eleva alla vita divina. La beata dimenticanza di sé cede il passo all’eccessiva autoproduzione di ego”.
L’era digitale ci ha fatto perdere la pazienza per il lungo e il lento: “là dove ogni cosa è disponibile e raggiungibile non si crea alcuna attenzione profonda”.
Ammonisce infine il Filosofo: “Se ogni cosa è preventivabile, la felicità scompare. La felicità è un evento che si sottrae a qualsiasi calcolo. Vi è un legame interiore tra magia e felicità. La vita prevedibile e ottimizzata è priva di magia, quindi di felicità”.
Sicuramente, dopo questa lettura, mi immergerò ancor più nella natura che in quest’autunno regala viste incredibili; continuerò a dedicarmi ai riti con gli amici per strutturare il tempo con libertà; regalerò ai nipotini il mio tempo (e non altre cianfrusaglie che sono solamente carezze di plastica). E sarò ancora più prudente verso ogni metaverso.
Da uno a mille, si intende!
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