Prendo in prestito una canzone di De Andrè perché vedrete che, come ieri, oltre settanta persone saranno morte in Emilia Romagna anche oggi, superando così le duemila solo nella nostra Regione, dall’inizio della pandemia. E’ dalla fine di gennaio che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito il Covid 19 un’emergenza internazionale di salute pubblica. Da quando poi girasse in Cina, e perché, vallo a sapere, se sei bravo.
Secondo gli ultimi dati della Johns Hopkins University, nel mondo i morti 62 mila: mi sembrano pochi, perché in Europa ne vengono dichiarati oltre 46.000, 15.363 in Italia, a sabato 4 aprile.
Confermo che non ho nessuna competenza né cosa intelligente da dire sul Covid 19, però oggi, mentre facevo una bella passeggiata per le nostre colline, mi sono appoggiato sull’erba a guardare il cielo (e a riposarmi).
Pur non essendo “un complottista”, riflettevo che non mi piace il pensiero unico affidato ad alcuni virologi. Non mi piace che se qualcuno dice o scrive cose diverse venga messo al muro, certamente non più invitato in televisione o intervistato sui giornali.
Vista la dimensione della tragedia, mi piacciono poco anche le troppe cosiddette task force che ci sono in giro. Ne basterebbe una, magari europea: altrimenti, a che ci serve l’Europa? E mi piacerebbe che in questa task force, oltre a virologi, pneumologi etc. (che insieme a tutto il personale ospedaliero ringrazio con una gratitudine immensa), ci fossero anche esperti di progetti complessi, gente che guida imprese tutto il giorno, esperti di logistica, counselor e psicologi per supportare chi, sempre più, comincia a soffrire come minimo di malumore. Per non predicare e basta, sono disposto a mettere a disposizione, gratuitamente, la mia esperienza di manager e counselor.
Però voglio parlare del giro di oggi che, mi autodenuncio, ha superato i duecento metri da casa, ma solo attraverso carreggiate.
Sono arrivato a Cà Plessi, dove credo ci abiti ancora Domenico, che ho visto tempo fa al Bocciodromo. No, non gioco a bocce e nemmeno credo che quel luogo di Castelvetro serva più per quello. C’ero andato con il mio amico Roberto per vedere se la loro sala potesse essere utilizzata per la presentazione del mio ultimo libro, che ormai slitterà se va bene all’autunno.
Comunque, ho incontrato unicamente un contadino che mi ha detto che molte susine e duroni, con il freddo dei giorni scorsi (di notte è arrivato anche a – 4°C), sono irrimediabilmente compromessi. Ah, avevo la mascherina, me la porto sempre dietro perché l’altro giorno ho visto una signora maltrattare un anziano (con mascherina e guanti) perché le è passato vicino per prendere il numero che regola gli accessi al supermercato. In più, mi dicono che sui social gira il video di un medico in camice bianco che prende a calci un vecchio con le stampelle. Quindi, meglio premunirsi, se sternutisci per effetto delle graminacee possono anche inforcarti.
Non so cosa sia successo alle susine e ai duroni, però la fioritura del mio ciliegio è sontuosa. Ho visto moltissimi ranuncoli e margherite, come un mese fa c’erano tantissime viole e primule.
Pochissimi, invece, gli “occhi della Madonna”, quei fiorellini deliziosi che decorano i campi: forse anche lei è stanca di vedere questa situazione.
Poi ho affrontato un campo in ripida salita e mi sono ricordato quando, da bimbo, con Giancarlo, Massimo e Fausto, slittavamo sulla neve giù per quel pendio, usando uno scaletto da frutta. Dopo sono arrivato a un laghetto che non vedevo da oltre quarant’anni.
Mi sono fermato per gustarmi il ricordo di quando, appena adolescente, costruivo case, castelli e anche barche con il legno, usando il traforo. Sulle barche posizionavo un piccolo motorino, con pila ed elica. Non avendo però soldi per il telecomando, guidavo, si fa per dire, la barca con uno spago, proprio in questo lago. Mia madre, avendo perso un giovane fratello, annegato in un canale di bonifica, costringeva mia sorella a seguirmi, per dare l’allarme caso mai fosse successo qualcosa. E qualcosa successe: la barca si incagliò tra le canne e lì rimase. Ne feci un’altra ma non ricordo se anche quella fece o no la stessa fine.
Arrivando verso casa, mi sono seduto sul muro di quelle specie di dighe, ai lati del fiumiciattolo (chiamato Rio Schiaviroli), che immagino servissero a formare una pozza d’acqua per irrigare.
Le hanno sempre chiamate gergalmente “more” ed anche il podere che mio babbo acquistò, alla fine degli anni quaranta, si chiama “Mora ed Neri”, come riporta un vecchio rogito che conservo ancora. Mi è sempre piaciuto pensare che fosse perché, nella casa ora mia, abitasse una bella ragazza dai capelli scuri, che di cognome faceva Neri.
Va bè, seduto su quel muro di sassi ho guardato il panorama e mi sono detto che alla fine è una grande rottura passare le domeniche e tanti giorni da soli, soprattutto quando non è per scelta.
Però, rispetto a chi vive in un appartamento di 70 metri quadri, in città, sono un privilegiato.
Nel frattempo due germani si sono alzati in volo e li ho osservati a lungo volare in coppia, eleganti.
Arrivato al cancello, ho visto che un uccello insiste a fare il nido nella cassetta della posta: sono tre volte che gli tolgo erba, rametti e muschio, controllando prima che non ci siano le uova. Stavolta però ho deciso di chiudere l’accesso, qui è pieno di alberi sui quali può fare tutti i nidi che vuole.
Va bè, finito il raccontino mi mancano tanto i miei nipotini, mio figlio, la mia compagna e gli amici, ma questa è la musica. Mi ha fatto bene stare “sul cuor della terra” e, anche se non proprio subito, ormai è sera anche oggi.
Buona fortuna, care e cari Naviganti che mi leggete qui o su Linkedin, in fondo mi avete tenuto compagnia mentre scrivevo questo frammento di diario.
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