È sempre bello sapere che, rientrati dalle vacanze, si troverà nelle piazze il festival della Filosofia (prima) e quello della Poesia (dopo).
Anche quest’anno mi sono fatto alcune lectio magistralis che, come sempre, mi hanno arricchito di spunti e riflessioni. E poi è consolante vedere tanta gente che ascolta, in luoghi piacevoli come le piazze di Modena, Sassuolo e Carpi, con attenzione, incontrare persone conosciute, cazzeggiare…Un lusso, in questo settembre anticamera dell’autunno.
UmbertoGalimberti ha trattato il tema “Creatività e follia” ed era quasi commovente l’introduzione del Sindaco di Sassuolo, che si richiamava all’importanza della creatività per il successo del settore ceramico.
Il filosofo ovviamente ha usato un obiettivo diverso, un grandangolo rispetto al microscopio del primo cittadino.
Di Galimberti mi piacciono i contenuti e la modalità con i quali li presenta: non si concede a facili compiacimenti, è abbastanza burbero, ma non scontroso. Ecco, è rigoroso.
Partendo (come era prevedibile) dal dire che la creatività è una parola vuota, perché nulla si crea e nulla si distrugge, l’ha però ben definita come espressioni secondo forme nuove, risoluzione di problemi secondo nuove modalità.
Per i cognitivisti, la parola “creatività” rimanda a scenari inconsueti, forme di intelligenza divergenti, che non risolvono i problemi solamente all’interno del problema dato.
Per Freud la creatività è connessa alla perversione, a sua volta essenziale per avere un pensiero che non vada nel verso giusto. In effetti, se le togliamo la dimensione morale, la parola per – verso significa anche che non c’è una meta predeterminata.
Molto interessante il ragionamento su creatività e ragione. Conscio che la mia sintesi non rende merito alla trattazione di Galimberti, mi piace però sottolineare come la creatività sia il misconoscimento delle differenze, istituite dalla ragione: una cosa è se stessa e non altro, ci arriva da Platone.
Però, quando nasciamo, non abbiamo la ragione, siamo in uno scenario indifferenziato, almeno fino ai sei o sette anni. Quindi, la ragione non è la verità, ma un codice!
Per introdurre la follia (sfondo per dominare il quale è nata la ragione) Galimberti si è riferito ai poeti, che fanno oscillare e contaminano i significati. Anche i folli contaminano i significati, infrangono le regole della ragione: la creatività affonda nella follia, in uno scenario indifferenziato dove i sensi si intrecciano tra di loro in un linguaggio non facilmente comprensibile, con comportamenti non prevedibili.
Ma noi abbiamo paura dell’indecifrabile e facciamo ricorso ai miti, ai riti e alla logica per cercare di far fronte alla imprevedibilità, che sta all’origine dell’angoscia.
D’altronde, Kant ci dice che La ragione è un’isola piccolissima nello sfondo dell’irrazionale. E Platone, pur sostenendo che” i poeti devono uscire dalla città perché mentono troppo”, aggiungeva che la follia proveniente dal Dio è assai più bella della ragione umana. E detto dal fondatore della ragione nell’Occidente…
Per essere artisti o poeti bisogna scendere nell’inferno dell’insignificante e dell’indifferenza, nella follia intesa come trasgressione della ragione. Però, per scendere in questo inferno ci vogliono regole di ferro, altrimenti diventa arduo riemergere. È la disciplina che fa la differenza tra creatività e spontaneità., per essere creativi bisogna essere fortemente disciplinati.
D’altronde, la ragione è un’opera necessaria per intendersi e vivere in modo prevedibile; è necessaria per convivere e costruire collettività, ma non per dire il nuovo.
La novità la devi andare a prendere nella confusione dei significati e dei codici perché la ragione crea il giusto e lo sbagliato, il bello ed il brutto… tutto già definito.
Le domande del pubblico sono più che altro un’occasione per il relatore di specificare meglio alcuni concetti, sempre che non ci sia la domanda – intervento, che allora è la fine.
In questa sezione, Galimberti ha fatto un interessante il passaggio sul caos, che solo la religione ha inteso come disordine, contrapponendolo all’ordine del cosmo. Caos significa anche aprirsi, dischiudersi: per Baudelaire è il respiro della terra. Così come la ragione è un recinto nell’aperto, il caos è l’apertura a tutte le significazioni.
Poi ha precisato come, oggi, alla base della depressione ci stia l’inadeguatezza, non più il senso di colpa. Infatti, la nostra identità deriva dal riconoscimento degli altri: nell’era della Tecnica il riconoscimento è legato al raggiungimento di obiettivi sempre più ambiziosi, verso i quali si deve sempre essere “up to date”: dopo è chiaro che non sei mai all’altezza e vai in depressione!
Interessante anche la considerazione sui giovani: poiché il denaro è il motivo generatore di valore, i giovani non sono un valore. Anzi, sono visualizzati come problemi, vivono di notte perché di giorno non li fila nessuno. Non ci si distrae più per divertirsi, ma per non pensare, per non stare con se stessi. E allora il rumore perenne, perché il silenzio ci fa paura.
I giovani si anestetizzano, senza gioia, per non esserci, in un mondo che non li convoca.
Però così siamo una società senile, che rinuncia alla forza sessuale, fisica e mentale che hanno i giovani. Rinunciare a queste energie non significa essere una società in declino, ma una società che è finita.
E qui non ho capito perché tutte le persone abbiano applaudito.
Mi è piaciuto quando, di fronte a chi gli chiedeva cosa ne pensasse delle discipline orientali, ha detto con fermezza che noi occidentali non siamo in grado di entrare nello scenario delle discipline orientali. Anzi, sa un po’ di onnipotenza dimenticare il limite dell’occidentale, che è la razionalità: non è solo questione di tecniche, non si può apprendere tutto. Dovremmo quindi evitare di pensare che la nostra sia LA ragione, ben che vada è UNA delle forme del pensiero.
Silvia Vegetti Finzi ha parlato domenica mattina, a Carpi, su: ”Per una archeologia del pensiero femminile, il bambino della notte”.
È partita da un elogio della fantasia, contrapposta alla efficienza del fare. Quante volte ci hanno detto “Scendi dalle nuvole, stai con i piedi per terra!”, per denigrare (inconsapevolmente?) il pensiero. Certo, pur essendo la fantasia consolazione e felicità, può anche sconfinare nel delirio, ma è un’altra storia.
La fantasia è costruita dalle figure del giorno, che si assemblano con quelle della notte: l’inconscio e il sogno, quell’ombelico che ci collega all’ignoto.
La relatrice parla sempre da un punto di vista delle donne, ma risulta interessante e gradevole anche per noi maschi. È partita dal fatto che le donne partoriscono per se stesse e per la specie: da un lato, con il parto la donna si realizza, dall’altro contribuisce alla continuazione della specie, a livello istintuale, come gli animali.
Però non ci aggrada accostarci agli animali, solo ai bambini piace immedesimarsi con quelli delle favole, senza per questo riportare ferite narcisistiche. Invece noi adulti usiamo gli animali come disprezzo: sei una bestia, un cane infedele, una iena…
Però tante volte gli animali ne sanno più di noi. La gatta partorisce senza alcun input, le donne vanno a corsi di parto tenuti da uomini. Perché questa perdita dell’estro, che nei mammiferi regola i comportamenti istintuali?
La cagna (Silvia Vegetti Finzi l’ha chiamata la femmina del cane) incinta non vuole più avere rapporti sessuali perché sente che dentro di sé è avvenuto qualche cosa: la donna invece ha bisogno delle analisi chimiche di conferma, del test di gravidanza.
D’altronde, la nascita di Gesù è annunciata dai profeti, quindi la nascita proviene dal maschile, la donna fornisce materia, l’alloggio (madre ? materia).
La relatrice ha utilizzato con efficacia diversi miti (la dea Thonet del primo mito culturale dell’occidente, Gaia…) per sottolineare come agli uomini non sia mai piaciuta l’idea di partenogenesi ed abbiano preso in sé la potenza della donna, creando il secondo mondo. Quella remota condanna resiste ancora, ecco perché le donne hanno perso il sapere essere madre in modo naturale e vivono la gravidanza quasi esclusivamente come fatto fisiologico, mentre dovrebbe esserci anche un grembo psichico.
Ha poi utilizzato diverse diapositive raffiguranti tele di Gesù e di san Giovannino per spiegare che, a contatto con il bambino del giorno, quello della notte scompare e lascia dietro di se un lutto, una sorta di malinconia, di nostalgia: come se qualcuno si fosse allontanato senza commiato.
Giacomo Marramao ha parlato a Sassuolo, domenica pomeriggio, accompagnato dal Sindaco e dalla banda: quando ha attaccato “Azzurro” mi sarebbe piaciuto che invece avessero scelto: “Maramao perché sei morto, pane e vin non ti mancava…”: ma forse era troppo per il titolo della lectio che riportava evidenti tracce filosofiche: “Dopo l’avvenire l’ambigua presenza del presente”.
Anche questa lezione mi è piaciuta, tranne quando il relatore indossava i panni del filosofo militante. Ma è un problema mio, anche perché Marramao l’ha detto esplicitamente che il filosofo deve porre interrogazioni che facciano leva sull’esperienza del presente, che facciano attrito sul terreno del presente.
Ho comunque condiviso che il presente non è sempre chiaro nel nostro Paese e che servirebbero ancor più idee di civiltà e democrazia per valorizzare il meglio del passato e proiettarlo verso il futuro. È che prendeva a modello la nostra regione quando, a pochi passi della piazza del palazzo Ducale, esiste un quartiere, Braida, che credo contenga tutte le contraddizioni alle quali si riferiva il filosofo.
Per Marramao, la fantasia si collega alla capacità di cogliere un aspetto del presente nascosto dal rumore dell’attualità. Il presente non ha solamente l’aspetto dell’attualità, va aldilà ed ha anche una piega inattuale, non nel senso di demodé, ma di proiezione e anticipazione del futuro.
In occidente stiamo vivendo le esperienze già praticate da Freud e da Nietzsche, la fine di una visione garantita. Varcata la soglia del futuro garantito, nessun futuro è possibile. Allora, ridefinire il futuro in termini nuovi, sottraendoci allo schiacciamento sul presente, un presente nel quale le vecchie carte di navigazione non servono più a nulla. Molto bello il passaggio sull’ipertrofia dell’attesa che genera una scollatura tra inflazione delle aspettative e restringimento del campo dell’esperienza.
Già decenni fa andava di modo lo slogan “No Future”, che però comporta un ritorno al presente concentrato sui desideri e sulle dimensioni a breve, senza proiettare le nostre aspirazioni.
C’è anche un versante depressivo connesso alla fine del futuro, in questa epoca delle passioni tristi.
In una sorta di eterogenesi, conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali, si assiste allo scacco della politica, a lungo ideologica, che ha promesso troppo ma non ha determinato carica simbolica per i singoli e per la collettività.
Il filosofo ha stigmatizzato la caduta dell’entusiasmo per svolte storiche, per le cose nuove. Quando ha affermato che non c’è più entusiasmo, ma timore, anzi, angoscia, non ho potuto fare a meno di osservare l’espressione del Sindaco, che pure credo sia una brava persona.
La politica è stata tirata dentro al buco nero del virtuale, che fagocita la realtà e rende irrilevanti i nostri corpi. Il presente pare eternalizzato grazie alle innovazioni e al loro carattere seriale, quasi si pensasse ad un presente eterno. Questa smaterializzazione però comporta lo svuotamento del simbolico,ogni evento è neutralizzato, serializzato, visto in uno scorcio dal quale passa solo ciò che è utile alle innovazioni di sistemi già predeterminati.
Partendo dall’11 settembre (da cui parte lo sciopero degli eventi), Marramao ha svolto una interessante condivisione sulle politiche della paura e stato dell’emergenza, sostenendo che la paura non nasce da dinamiche oggettive, da fenomeni migratori, per altro propiziati dall’economia dei mondi sviluppati, ma che è indotta politicamente. Di nuovo guardavo il Sindaco che secondo me pensava ancora al quartiere Braida, mentre Marramao diceva che lo stato di eccezione non è reale, ma alimentato e prodotto ad arte.
Per uscire da questa situazione occorre riprendendo a ripensare al presente, nella sua pienezza: evitando di confondere il presente con l’attuale, generando invece fantasie anticipatrici come l’arte, i linguaggi artistici, musicali, della scienza.
E’ vero che la prima forma in cui si presenta il soggetto è l’assoggettamento, tutti inchiodati a giocare un solo ruolo, una sola appartenenza, una nostra identità. Ma se accettiamo questa crocifissione a un’identità (sono solo islamico, solo cattolico, … ) allora non sono possibili le identità relazionali, multiple, quelle che servono per un nuovo cosmopolitismo. Occorre fuoriuscire dall’identità chiusa per ricostruire insieme una nuova identità, anche perché la casa dell’universale non è (già) edificata, deve essere riedificata multilateralmente.
La politica deve poi ridefinirsi in un lessico più vicino all’esperienze, colmando la frattura oggi esistente tra la dimensione materiale e la dimensione simbolica. Deve aprire il varco dell’entusiasmo, quello vero, che ci strappa dalla nostra pigra identità consolidata e ci mette in rapporto con un nuovo. Deve riprendere l’idea di progettare un orizzonte di senso per l’agire e la vita delle persone.
La politica deve parlare sì della ragione, ma non intesa solo come razio, puro calcolo: deve essere in grado di suscitare passioni. Conclusione con frase ad effetto: “Dall’immaginazione al potere alla fantasia del movimento, per riaprire il futuro dopo la caduta dell’avvenire garantito”.
Delle risposte alla domande mi sono piaciuti molto due concetti:
– Il futuro dipenderà da noi stessi, dalle nostre scelte o non scelte
– ognuno di noi è come il vento, quando entra in uno spazio lo fa vibrare in modo unico e irripetibile.
Ed ora, tutti al festival della Poesia, ideato dal mio amico, sindaco di Castelnuovo Rangone e poeta, Roberto Alperoli. Il programma è visionabile cliccando sul logo del poesiafestival.
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