Scrivere: una bellissima condanna

Questa seconda vita, che ho da poco iniziato, è molto prolifica per quanto riguarda la scrittura.

Ho già terminato (ma ci stavo lavorando da prima) le prime bozze di due libri di taglio professionale, non narrativo. Il primo è una sorta di corposo manuale per il Counseling in azienda, che in larga parte recupera la tesi che avevo preparato per il dottorato in Psicologia sociale.

Il secondo è un breve saggi,o di nemmeno cento pagine, sul perché le PMI non assumono manager tradizionali.


Adesso le bozze di questi due libri sono alla prima lettura di persone fidate, che mi diranno se ciò che ho scritto ha un senso oppure no. Ci sarà, poi, l’immane lavoro di limatura di alcune parti e di approfondimento di altre.

Da alcuni giorni non ho di che scrivere, e mi manca questa cosa. Umberto Eco diceva: “C’è una sola cosa che si scrive solo per se stesso, ed è la lista della spesa. Serve a ricordarti che cosa devi comperare, e quando hai comperato puoi distruggerla perché non serve a nessun altro. Ogni altra cosa che scrivi, la scrivi per dire qualcosa a qualcuno”.


Allora oggi ho messo sulla carta la prima traccia di un romanzo, che da oltre un anno mi frulla in testa: il protagonista è un immigrato che, in condizioni di schiavitù, raccoglie pomodori nel Mezzogiorno. Mi convince la traccia, anche se so che non la seguirò troppo diligentemente.

Ovviamente alterno sempre la scrittura alla lettura: per scrivere una pagina bisogna averne letto almeno diecimila!

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